Il Seme del Fico Sacro: recensione

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Vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 2025 e candidato all’Oscar come Miglior film internazionale, Il seme del fico sacro è l’ennesimo sorprendente film iraniano ad arrivare nelle nostre sale. Diretto da Mohammad Rasoulof (Orso d’oro a Berlino nel 2020 con il bellissimo Il male non esiste), è un teso racconto famigliare che fa da specchio alla difficile condizione del suo paese, girato in clandestinità e completato all’estero per via delle numerose azioni di censura esercitate dal governo nei confronti del regista.

“Se nella storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà”.

Vedendo Il seme del fico sacro, nei cinema dal 20 febbraio 2025, non può che tornare alla mente il famoso principio di Anton Čechov, per cui ogni elemento che viene presentato in una narrazione a un certo punto dovrà trovare la sua ragion d’essere. E sebbene quello del drammaturgo russo fosse un esempio, è proprio una pistola, e in particolare la sua scomparsa, il fil rouge che attraversa tutta la storia di questo meraviglioso film iraniano. La pistola è quella di ordinanza che il padre di famiglia Iman (Missagh Zare) riceve per difesa personale, dopo essere stato promosso a giudice istruttore dal Tribunale rivoluzionario. È il suo, infatti, un ruolo molto delicato, da cui può dipendere la vita o la morte di altre persone anche contro la sua volontà, per cui l’uomo si trova suo malgrado ad essere dalla parte dei carnefici in un momento storico molto delicato: a seguito della morte molto sospetta di una giovane ragazza, la società è in ebollizione e un’ondata di proteste che coinvolge soprattutto i più giovani inizia a scuotere il paese. A queste proteste non sono indifferenti le giovani figlie di Iman, Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Maleki), rappresentanti di una nuova generazione che si oppone ai principi antiprogressisti del patriarca, con cui si scontrano duramente. Tra i due fuochi c’è poi la devota moglie Najmeh (Soheila Golestani), divisa tra l’amore e la subordinazione al marito e il senso di protezione verso le figlie. Quando la pistola di ordinanza scompare, mettendo in pericolo la reputazione e la carriera di Iman, l’uomo inizia a sospettare della sua stessa famiglia, facendo esplodere la tensione accumulata fino a risvolti inaspettati, in cui i ruoli di vittima e carnefice finiranno forse per scambiarsi.

Il Seme del Fico Sacro: recensione 1

Con Il seme del fico sacro, Mohammad Rasoulof firma un capolavoro di scrittura e di costruzione della tensione

Che, come altri film di questa tradizione, si scardina anche dalla classica idea di suspense hitchockiana (in cui lo spettatore è sempre più informato rispetto ai personaggi) per trovare strade alternative, mettendoci spesso di fronte all’impossibilità di conoscere la verità e all’idea che il dubbio possa insinuarsi in chiunque, svelandone la vera natura. Il regista, condannato nel suo paese a otto anni di reclusione e alla fustigazione per via dei suoi lavori, e costretto a lasciare clandestinamente l’Iran per trasferirsi in Germania, parte da alcuni fatti di cronaca e dalla sua esperienza personale di artista più volte finito in tribunale e in prigione, mostrandoci la vita, le convinzioni e i dilemmi di chi fa funzionare quel tipo di sistema.

L’evento scatenante de Il seme del fico sacro è la morte della ventiduenne Mahsa Amini, uccisa in circostanze poco chiare il 16 settembre 2022 dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa a causa della mancata osservazione delle legge sull’obbligo del velo, la cui conseguente ondata di proteste contro il regime degli ayatollah fa da sfondo alla pellicola. La prospettiva qui però è quella di una tensione che dal macrocosmo della società iraniana si sposta al microcosmo della famiglia di Iman, con una intersezione fra sfera pubblica e privata che fa sì che l’una sia lo specchio dell’altra. La figura di Iman è centrale in questo, si fa incarnazione di quella banalità del male che passa attraverso la burocrazia e le istituzioni. Lo vediamo spesso percorrere il corridoio del tribunale rivoluzionario in cui lavora, ambiente deumanizzante pieno di cartonati con figure istituzionali iraniane, mentre le vittime stanno immobili contro i muri e con gli occhi bendati, solo una delle tante grandi idee di cinema anche visive del film. Lui, servo integerrimo del regime, sarà messo a dura prova dagli eventi che seguiranno la sua promozione, creando crisi e dubbi su quello stesso sistema di cui fa parte che diventano anche crisi religiosa, a riprova di come questi due elementi siano fortemente interconnessi nella società iraniana.

Il Seme del Fico Sacro: recensione 2

Arriverà a dover scegliere tra il suo lavoro e la sua famiglia, dimensioni che cerca di tenere insieme il personaggio della moglie Najmeh, figura sempre più chiave man mano che avanza la narrazione, lei che pulisce ogni sera il corpo di Iman con un rituale quasi sacrale, come se dovesse lavare via i peccati compiuti durante il giorno dal marito. Centrale è poi il rapporto della madre con le figlie, utile a mettere in scena un conflitto generazionale che passa prima di tutto attraverso l’utilizzo di diversi mezzi d’informazione (la televisione, più manipolabile e controllata dal regime, e il telefono, i social, con cui le figlie hanno un contatto più diretto con quello che accade).In una delle sequenze più importanti e magistrali del film, Najmeh sarà costretta a mettere da parte le sue convinzioni di fronte a un’altra donna in difficoltà, rendendosi complice delle figlie: proprio come i semi del fico che danno il titolo al film, che attraverso un particolare ciclo vitale germogliano “strangolando” altri alberi, il regime ha partorito una generazione che adesso cerca di soffocarlo. Qui però i semi, in una straordinaria assonanza visiva, sono i proiettili, i pallini di piombo incastonati nel volto di giovani ragazze senza colpa. I semi della rivoluzione che germogliano dal sangue.

Il seme del fico sacro recensione

Il seme del fico sacro, girato principalmente in interni e con diverso materiale d’archivio, che ne fa un’opera liminale tra finzione e realtà, conferma la straordinaria capacità dei registi iraniani di trasformare la necessità in virtù, in nuovi modi di fare cinema sempre straordinari e sorprendenti (come dimostra anche l’ultima immensa parte di carriera di Jafar Panahi). La storia intima di una famiglia borghese diviene il luogo per parlare delle tensioni di una società intera, di come il regime possa trasformare in mostri anche le persone apparentemente più amorevoli, mettendo genitori contro figli, spingendoci anche a domandarci chi siamo disposti a proteggere e a quale costo. Un thriller magistrale, che si rivela in ultima analisi anche un’acuta riflessione sul potere, anche manipolatorio, delle immagini. Ritornando a Čechov, a voi scoprire se e quando quella pistola sparerà.

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