Abbiamo avuto il piacere di intervistare Andrea Bosca, tra gli attori italiani più amati.
Classe 1980, Andrea Bosca si addentra nel 2020 con vari progetti che lo renderanno protagonista non solo sul piccolo schermo, ma anche a teatro. Infatti Andrea è nel cast di “La guerra è finita”, fiction di Rai Uno prodotta dalla Palomar e diretta da Michele Soavi. Andrea Bosca inoltre è in procinto di debuttare il 17 gennaio al teatro Alfieri di Asti con il monologo “La Luna e i Falò” di Cesare Pavese, riadattato e diretto a quattro mani con Paolo Briguglia.
Ciao Andrea, benvenuto su Shockwave Magazine. Abbiamo imparato a conoscerti nel tempo in ruoli televisivi come quello di Guido nella fiction “Raccontami” o sul grande schermo con film come “Noi credevamo” di Martone o “Si può fare” accanto a Claudio Bisio ma la tua prima formazione è teatrale, come ti sei avvicinato alla recitazione? Hai frequentato un’accademia?
Ho studiato alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, 2000-2003, fondata da Luca Ronconi e diretta da Mauro AVOGADRO. Tutti i grandi maestri che ho incontrato in quella scuola – e non solo – mi hanno insegnato ad affinare un’arte di cui mi ero innamorato perdutamente già a scuola alle medie e poi con il Gruppo Teatro Nove di Canelli e con l’amico attore Renzo Arato. Avogadro mi scelse per far parte della Compagnia Stabile del Tst nei suoi spettacoli con Elisabetta Pozzi. La passione assoluta con cui ascoltavo in quinta e in scena il lavoro degli attori è sempre quella. Sto tornando a teatro con La Luna e I Falò, adattamento mio e di Paolo Briguglia (regista) prodotto da Bam Teatro: mi sento quel ragazzo di allora. Mi sento quella voglia lá. “Per me, delle stagioni erano passate… non degli anni… “
Al giorno d’oggi si tende a fare una grande differenza tra “attore di cinema” e “attore di teatro” come se fossero due categorie separate, certo è che il cinema e il teatro sono due linguaggi diversi ma io penso che un attore sia un attore e basta, senza distinzioni. Qual è la tua opinione a riguardo?
Ho sempre lavorato pensando di diventare una persona viva e vera, sia di fronte alla cinepresa che sul palco. Il pubblico ama essere toccato e portato dentro ad una storia immaginaria attraverso l’assoluta onestà dell’attore e allo scambio onesto (da dentro a dentro, diceva Carmelo Bene) tra chi recita e chi ascolta. Sono solo modi apparentemente diversi di arrivare alla stessa cosa. Il pubblico è la cinepresa, sono gli altri compagni, sono la troupe. E viceversa. Ogni storia ha bisogno di essere raccontata con un medium appropriato, alcune storie hanno bisogno del Cinema e altre del Teatro. Ma l’attore deve vivere onestamente il mondo della storia.
A tal proposito hai due debutti imminenti sia a teatro che al cinema, parliamo della fiction “La guerra è finita” di Michele Soavi che vedremo su Rai 1 a partire da lunedì 13 gennaio.
Sono felice di far parte di questo bellissimo cast e di avere un personaggio che porta l’amore, l’impegno, l’ascolto e l’umanità con delle note a volte anche comiche. Stefano Dell’Ara è una brava persona, è stato nell’esercito italiano e ha fatto la guerra d’Africa (ricordate il bel film El Alamein?) poi la prigionia in India e ora è tornato per lavorare e ricostruire l’Italia, giocando la sua parte come avvocato. Ma quando rivede Giulia (Isabella Ragonese) si innamora di lei due volte: della sua bellezza e dei suoi valori. Stefano è come tutti noi quando apriamo gli occhi su una realtà concreta e brutta (penso alla guerra in Siria tanto quanto alle emergenze qui in Italia che riguardano i minori) e cerchiamo di dare una mano ai volontari, alle persone che per prime sono scese in campo per aiutare. Sono felice che questa parte di me, che nella vita ho scelto di costruire assieme ai miei colleghi con il progetto di Every Child is Mu Child onlus , possa metterla a servizio di questo personaggio nato dalla forte penna di Sandro Petraglia.
Tu e i tuoi colleghi (Isabella Ragonese, Michele Riondino, Valerio Binasco) come siete riusciti ad affrontare una tematica sviscerata più volte dal cinema e dalla tv (L’Olocausto)? Come siete riusciti a renderla più autentica?
Cercando di raccontare la voglia di vivere. Stefano vuole anche andare a ballare, vuole aiutare ma anche giocare coi bambini. Vivere. Senza sentirsi in colpa, perché lui ce l’ha fatta a sopravvivere. Questi bambini bellissimi ci hanno insegnato ogni giorno, sul set, a vedere quello che va, a cercare qualcosa di bello da fare. Michele Soavi si è divertito a fargli smontare la mia macchina durante una scena perché questa vitalità è l’unica forza che può raccontare, per contrasto, un orrore indicibile. E la vita è anche paradossale, ironica. Ci chiede un respiro, prima di immergerci in profondità nere.
Come si svolge una giornata tipo su un set cinematografico?
Dipende dagli orari e dai lavori. Sulla porta rossa ero convocato alle 5 del pomeriggio, 3 ore e mezza di trucco e poi girare fino alle 6, 1 ora di strucco e a nanna col sole che sorgeva. Bellissimo ma strano! A volte ci si alza alle 5-6 e si parte a girare presto. Pausa un’ora e poi si ricomincia. La sera si studia. Ci sono periodi in cui giri tutti i giorni – e ti fai le ossa, come si dice – e ci sono periodi in cui giri le tue pose (giorni di lavoro) molto staccate. Devi sempre stare molto attento a dove vai e da dove vieni nella storia, giriamo spesso fuori dalla continuità. Nello stesso giorno puoi trovarti in mondi e modi totalmente diversi, magari nella stessa location.
Il 17 gennaio al Teatro Alfieri di Torino debutterai con la nuova produzione di Bam Teatro “La Luna e i falò” per la regia di Paolo Briguglia, parlaci di questo progetto e della tua passione per Cesare Pavese.
La luna e i falò è un libro della vita, per me. Letteralmente. Sono davvero cresciuto nei luoghi dove è ambientato, ho girato anche io il mondo eppure ancora mi chiedo perché un paese è un paese. Al liceo ti piace, ma vuoi vedere il mondo, sogni l’America e vuoi partire da quelle colline. Ma quando diventi uomo, la maturità è tutto… e allora puoi raccontare una storia che porti con te da 20 anni. Marcella Crivellenti di Bam Teatro ha creduto in me e con Paolo Briguglia abbiamo lavorato per rendere questa storia una confessione occhi negli occhi col pubblico. Una parte di me è sempre stata Anguilla, il protagonista . Un’altra parte lo è diventata ora. È incredibile ma quando vivo questa storia mi sento davvero io, non so nemmeno bene perché. Spero che, dovunque sia, Cesare Pavese sia con noi. Desidero raccontare la storia di questo orfano che si trova a lavorare come servitore in una grande cascina e poi parte per l’America in cerca di fortuna -ma non può fare a meno di tornare al suo paese di origine e di confrontarsi col passato che inesorabilmente si trasforma- con l’anima spalancata.
Com’è stato riadattare un romanzo dal linguaggio potente che narra “al passato” nella dimensione dell’hic et nunc teatrale?
Ci abbiamo lavorato per un anno, senza considerare i passaggi precedenti (sono 10 anni più o meno che gli sto dietro… ma solo ora ho l’età giusta per essere Anguilla) i tentativi infruttuosi che sono comunque stati utili per conoscere il romanzo in tutti i suoi risvolti. La parte più dura? I tagli. Lo scegliere cosa raccontare e cosa no. La dimensione sociale è rimasta intatta e totalmente intatta: “Non bisogna dire : gli altri si arrangino… bisogna aiutarli. Se sbaglio correggimi”. La domanda morale è la stessa de La Guerra è finita: possiamo davvero lasciare chi ha bisogno a se stesso? E quali sarebbero le conseguenze di questo abbandono? La miseria e la mancanza di cultura alimentano la violenza. E questo vale sia per gli orfani dopo la seconda guerra mondiale, i figli dei poveri contadini delle Langhe, i bambini siriani che scappano dalla guerra per rifugiarsi in Turchia senza un tetto sulla testa, i minori non accompagnati che soffrono nelle stazioni Roma.
Cosa pensi dell’importanza di lavorare sul territorio di origine e sulla provincia?
È fondamentale sapere da dove vieni e sapere che si può ambientare una storia universale, il cui cuore tocca tutti, in un luogo semplice e duro, splendido come la Langa. Pavese lo aveva capito, aveva avuto un’intuizione grande: una Divina Commedia rurale, di contadini e di sudore, una storia che riguarda gli ultimi e che parla al mondo. “Una collina come un pianeta” per me significa anche che questa è una storia esemplare: accade qui , ma accade ora, adesso, anche in altre parti del mondo. “I ragazzi, le donne, il mondo… non sono mica cambiati… eppure la vita è la stessa”. Tornare nella mia terra e ripartire da lì, ha un senso. Raccontare la mia terra ed essere parte di una voce che la mostra -giocando con la ritrosia piemontese, mostrandola nella sua bellezza- è naturale ed è un bel compito, per me.
Pensi che ci sia la possibilità di un riavvicinamento al teatro da parte delle giovani generazioni anche con la riscoperta dei Classici?
Nel nostro piccolo lo stiamo già facendo perché so che il pubblico delle prime repliche è composto per metà da ragazzi che verranno a vedere lo spettacolo proprio perché ora le vicende di Anguilla, Nuto, Cinto, del Valino e delle ragazze è incarnata in una figura che vive davvero quella storia sul palco. Volevo finalmente parlare nella mia lingua. E la mia lingua non è solo il dialetto dei miei genitori o l’italiano che ho studiato a scuola o a teatro.. è quella poesia in prosa, quelle liriche che escono dalla bocca di un vagabondo che Cesare Pavese ha forgiato, riscritto, fatto suonare in un opera breve ma densissima di significati. E bella. Perché nella sua bellezza e nella forza scopriamo la profondità e la semplicità.
Una piccola curiosità: ricordo la tua partecipazione, tra i tanti volti noti, alle riprese del cortometraggio diretto da Valerio Mastandrea per il brano di Daniele Silvestri “scusate se non piango”. Un’azione forte, un’unione di intenti dove la musica e la recitazione sono state utilizzate a scopo sociale e non per il puro apparire. Cosa pensi della cultura e dell’arte oggi in Italia? Di cosa abbiamo bisogno secondo te?
Ho sempre avuto un occhio aperto sul sociale ma non me ne sono mai reso conto. Mi capita di vedere le persone, di volerle raccontare per davvero e senza finzione. Come artisti dobbiamo interrogarci sul perché nessuno parla dello scempio che stiamo facendo ai danni della Natura. Dell’ambiente. Io sono nato nel verde. È insopportabile pensare un mondo sprecato, sporcato, ucciso. Stiamo parlando della più grossa calamitá mai accaduta all’Umanita, di cui l’umanità è totalmente responsabile -gli scienziati sono cassandre inascoltate da decenni- ma nessuno ne parla. Ancora non siamo convinti? Casa nostra brucia. Dobbiamo pretendere un’inversione di marcia, dare il buon esempio.
Ci salutiamo con una canzone.
Le acciughe fanno il pallone di Fabrizio De André.
“Bottiglia legata stretta
Come un’esca da trascinare
Sorso di vena dolce
Che liberi dal male
Se prendo il pesce d’oro
Ve la farò vedere
Se prendo il pesce d’oro
Mi sposerò all’altare
Ogni tre ami
C’è una stella marina
Ogni tre stelle
C’è un aereo che vola
Ogni balcone
Una bocca che m’innamora”.
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