Se c’è un artista, in Italia, ora, o meglio, un band, in questo momento, che sappia fotografare la realtà, si tratta di Giorgio Canali e Rossofuoco. Venti è il nuovo album per La Tempesta dischi, uscito, appunto, nel triste 2020.
Giorgio Canali non ha bisogno di presentazioni. Attivo dagli anni ’70, una carriera divisa fra il rock più acido ed il prog, fra il politico ed il sogno, abbracciando infine la canzone d’autore proprio dal 2002, anno in cui ha cominciato a collaborare appunto con i musicisti che compongono i Rossofuoco: Marco Fuoco al basso, Luca Martelli alla batteria, Stewie Dalcol alla seconda chitarra, e Francesco Felcini a fonia e produzione.
Sono passati ormai due anni fa Undici canzoni di merda con la pioggia dentro, il post-atomico nella pianura padana, fatta di banchi di neve fradicia e polvere radioattiva; e comunque, in un mondo quasi post-apocalittico, si ambienta Venti, una raccolta di per l’appunto venti canzoni scritte in “smart working” (invenzione tutta italiana, eh). Perché è durante il primo, tragico, lockdown di questo 2020, che dà anche il nome all’album, che Giorgio Canali e i Rossofuoco hanno composto il nuovo album, uscito il 4 dicembre per la storica La Tempesta dischi.
Innanzitutto: vero è, e sempre sarà, che i migliori lavori artistici nascono dalla frustrazione, dal dolore, dal tedìo, dallo stomaco che brucia; vale anche per Venti. Raramente si assiste al binomio lunghezza-fruibilità, ma è il caso di Venti: la lunghezza delle tracce, che portano ad un’ora e venti di musica e liriche arrabbiate, oneste, ben prodotte, ottimamente “incollate” – perché, purtroppo, non si tratta di un album registrato assieme, ma, la distanza – che tanto ipocritamente a marzo pensavamo ci avrebbe reso più uniti – ha costretto a spezzettarne il processo creativo.
C’è, però, in Venti, potente e palpabile, vita. Tantissima vita. Vissuta, e, come tale, reale, piena d’amore – la stupenda ballad Acomepidì si configura come la mia personale canzone d’amore dell’annus horribilis 2020 – di ingiustizie sociali (Inutile e irrilevante), di speranza (Come quando fuori non piove più). Contraltare del vero amore secondo Giorgio Canali è, invece, CDM (Te la devo) – mesta descrizione degli amorazzi estivi, ma il tema fondante di Venti è un altro, e l’amore ne è solo una parte. Il tutto viene anticipato nella seconda traccia, Morire Perchè.
Non c’è sperimentazione musicale in Venti di Giorgio Canali e Rossofuoco: c’è una carica di onestà e realtà che non sfocia mai nel banale e nel manieristico; in una frase forse più semplice, il manifesto dichiarato da Canali quando decise di lanciarsi nella sua carriera solista – il cantautorato – è perfettamente realizzato. Racconti, racconti reali ma non banali: mai sciocchi, mai lemon ma vanilla, aciduli, maleodoranti, come ciò a cui il pop italiano ci ha abituato, ma la realtà filtrata dall’occhio di adulti, cui, personalmente, sento di essere lontana eoni, ma rapidi nei concetti, profondi nelle riflessioni. Punk: in Giorgio Canali non c’è più il punk degli anni ’70, la ribellione sporca, sconnessa, disorientata, e disordinata, ma c’è il punk moderno di artisti come Zerocalcare, c’è l’evoluzione subita dagli italiani Punkreas e dagli idoli Bad Religion, degli ultimi Crass.
Tecnicamente parlando, si passa dalla dylaniana Eravamo Noi, che dipinge, con stupefacente realismo, la gioventù di un nato negli anni ’50 – in contrasto, forse, sottinteso, con la nostra di gioventù, forse più sbiadita, colma di paranoie ben giustificate e necessità di eliminazione – ad una maggior ricerca del riff e della melodia in Morire perché, agli echi PFM + De Andrè in Wounded Knee – che, oltre a citare per l’appunto Faber di Fiume Sand Creek, ne recupera, sporcandola della sua personale e scanzonata sassaiola, l’evocatività narrativa. C’è spazio per un Bukowski italiano in Tre grammi e qualcosa per litri e Vodka per lo spirito santo, collassi su tappeti altrui e rantoli arrabbiati – batteria cadenzata e quasi crooning nel cantato di Canali; che diventa un Johnny Cash ancora più schietto e meno romanticone d’altri tempi in Raptus, in cui il buco dell’ozono, orbite oculari, si trasformano in ben altri buchi, tutti allafieradell’est di Branduardi ma durante una caotica baruffa da bar. C’è anche un po’ di folk di Mark Lanegan, in Venti, in un outtake dal precedente album, quale Meteo in Cinque Parti: abbracciami ancora, come quando questa pioggia non c’era.
Venti è un album ricchissimo di citazioni, anche musicali: viene omaggiato il prog degli anni ’70 con le intrusioni di hammond in Requiem per i gatti neri e Canzone Sdrucciola, che, se avessi avuto metà della furia creativa e della poesia antifascista di Canali, avrei potuto scriver io – forse, tecnicamente, il brano migliore di Venti, con le chitarre di Canali e di Dalcol che si intrecciano sopra ad un’enumerazione di nemici mandati a fanculo che altro che We didn’t start the Fire di Billy Joel; un po’ di Who in Viene avanti fischiando, che pare una jam session blues; mesti violini quasi goth aprono Proiettili d’argento, che è la più marlenekuntziana dell’intero Venti. Album che, infine, ci dà il suo commiato con Rotolacampo, che prende in giro il folk gioioso e ingenuo di Massimo Bubola.
Con Venti, , Giorgio Canali e i Rossofuoco hanno voluto trasmettere un potente messaggio, nascosto ma onnipresente fra righe incazzate, comprensibili e nichiliste blasfemie, ateismo disperato e disperante – ma che, personalmente, trovo estremamente consolatorio – un’esortazione alla lotta, alla finale Rivoluzione: non contro lo Stato, ormai invincibile; non contro la Società, ormai incancrenita su se stessa e istupidita di social; ma contro il tempo. Il tempo, citato ovunque in Venti, che scorreva lento e paludoso in lockdown, che non aveva confini, un’infinita pianura subacquea; quel tempo che andava e va raccolto e fatto fruttare. I suoi fili esili vanno raccolti, uno per uno, e snodati, aggrovigliati dalle crudeli anti-Moire della solitudine, della noia, dello spleen. Raccogliamo, dunque, quel tempo, e piantiamolo, come semi di mele lasciati marcire nel torsolo. Abbiamo tempo per vederne l’albero crescere.
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