Blonde è l’attesissimo film su Marilyn Monroe presentato in anteprima alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia e sbarcato direttamente su Netflix il 28 settembre.
Marilyn è indubbiamente una delle più grandi icone del 900 americano, ed in qualche modo occidentale, insieme a pochi altri come Elvis Presley. La sua vita è una sorta di metafora del secolo breve americano e le pellicole dedicate alla sua vita non si contano. La Monroe infatti rappresenta l’anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova Hollywood e tra l’America che esce dalla seconda guerra mondiale fino a quella che si è contesa il predominio mondiale con il blocco sovietico durante la guerra fredda.
Con tutte queste premesse ogni film sulla diva americana, al secolo Norma Jeane Mortenson Baker, avrebbe mille e più spunti di riflessione. Il film di Andrew Dominik con la sempre splendida Ana De Armas, però, fallisce su quasi tutta la linea. Basterebbe soltanto la scena delle lenzuola che si trasformano in una cascata per derubricare questa pellicola a filmetto di serie B. Ho letto di registi stroncati a vita per molto, molto meno.
L’intenzione di partenza era quella di un biopic che romanzasse alcune parti della vita di Marylin per interpretare alcune zone grigie interne ed esterne alla diva. Purtroppo l’intenzione risulta essere molto distante dalla sua realizzazione. L’impressione infatti è che nelle quasi tre ore di racconto il regista e gli sceneggiatori abbiano voluto mettere fin troppe cose senza riuscire a raccontarne quasi nessuna in modo apprezzabile. Nessun filone narrrativo compie il suo arco, nessuna sottotrama respira a dovere.
Oltre alla sceneggiatura anche le vorticose variazioni registiche sembrano quelle di un gran guazzabuglio. Uno dei filoni narrativi poco esplorati in precedenti pellicole è sicuramente quello delle violenze fisiche a cui Marilyn è stata sottoposta per iniziare la sua scalata al successo.
Gli stupri di inizio carriera e le violenze domestiche subite negli anni erano di certo una pagina dolorosa che avrebbe meritato una delicatezza maggiore ed un argomento che forse era il momento giusto per approfondire maggiormente con una penna migliore in sceneggiatura. Di certo la vita privata, la famiglia traballante in gioventù e l’ascesa in una società ed in un ambiente lavorativo graniticamente maschilista e (solo nella facciata) perbenista ha influito molto nel vortice che poi ha risucchiato la persona e l’attrice più famosa d’america. Questo sembra portarci a pensare ogni fotogramma (e sono tanti) del film.
Il problema di Blonde però resta quello della realizzazione, nel voler fare all-in per poi perdere clamorosamente con un bluff in mano. Già dopo la prima ora di visione lo spettatore comincia a far fatica nel procedere, la supponenza della produzione comincia a palesarsi in tutta la sua autoreferenzialità. Col passare dei minuti diventa una vera e propria gara di resistenza.
Non pensate che chi scrive sia prevenuto, perché sfido chiunque a credere all’altro tocco di classe che contribuisce a rendere il film un pastrocchio a metà tra il B-Movie e la parodia ovvero il continuo ritorno di un feto che dialoga e guida come un grillo parlante Marilyn per tutta la durata della sua vita.
Non si vedeva una cosa così posticcia dai tempi del finto neonato in braccio a Bradley Cooper in American Sniper. Una proposta che non brilla certo per originalità ma che sprofonda paurosamente nel cringe. Marilyn si muove nel mondo come una riproposizione del Candido di Voltaire, incapace di sviluppare un pensiero fuori dalla sua caratterizzazione bidimensionale.
Ana De Armas tiene la scena con dignità, la su somiglianza alla Monroe in alcuni momenti è davvero impressionante, i suoi momenti migliori sono quelli in cui recita insieme a Adrien Brody che contribuisce a dare un minimo di spessore recitativo e interpretativo al film.
Blonde però ha il suo peccato principale nel pensare al telespettatore come ad un bambino spaesato, uno spettatore incapace di arrivare ad una conclusione che non sia imboccata dal regista e dagli sceneggiatori. Tutto quello che viene messo in scena nel film è una sorta di versione Bignami di un libro di teoria psicanalitica per principianti. L’approfondimento è totalmente assente, la critica sociale è degna di un post da boomer su facebook.
Marilyn, ha rappresentato la più grande icona cinematografica del ‘900 e in questo film il cinema, che è stato la sua forza e che la stessa attrice ha contribuito a rendere uno strumento potentissimo, non è per nulla rappresentato in tutta la sua grandiosità e la sua potenza. La stessa vita di Norma Jeane grazie alla sontuosità della settima arte ha continuato ad esistere molto dopo la sua morte fisica, questo potere, questa magia, questa immensa metafora della vita in queste tre ore viene soltanto strumentalizzato ed, in qualche maniera, ucciso a sua volta.
In conclusione viene da pensare che a volte più che ostinarsi ad omaggiare qualche artista scomparso bisogna avere pietà di lui, in questo caso questa pietà non c’è stata.
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