Un Borghese Piccolo Piccolo è un film di Mario Monicelli del 1977, con interprete principali Alberto Sordi al suo primissimo ruolo drammatico.
Ho scelto esattamente quel che sono,
Senza la scelta, io, la vita, l’abbandono…
Sono versi da Il Testamento, di Andrea Appino (leggi qui la recensione de L’ultima casa accogliente), dall’omonimo album – dedicato, non a caso, a Mario Monicelli.
Uno che “ha preso in giro solo quelli più potenti, che a loro ha preferito sempre i pezzenti”. Ed il pezzente per eccellenza, il non proletario più pezzente di tutti, è il Giovanni Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo.
Alberto Sordi è Giovanni, impiegato del Ministero della Giustizia, Ufficio Pensioni. La sua epopea quotidiana ha come punto di partenza casa sua, dove convive con la moglie Amalia (Shelley Winters, che lavorò molto in Italia in quel periodo), e col figlio Mario (Vincenzo Crocitti). Da quell’appartamento a San Giovanni guida ogni giorno fino a piazza Cavour, parcheggia sul Lungotevere, va in ufficio, dove l’attendono i colleghi, provenienti da varie parti d’Italia, con i quali vige un certo indifferente cameratismo. Infine, torna a casa, attende che Amalia gli serva la cena – pasta incollata che viene poi condita con pochissimo sugo annacquato – , con ansia, inoltre, aspetta che la suddetta gli rivolga la parola, solo per rispondere male alle sue querule rimostranze, lanciando un piatto contro il muro – che, Amalia, col sussiego e la pazienza di chi ormai s’è abituato, raccoglie con paletta e scopa.
Una casa gialla, la casa dei nonni, entrata nella mentalità comune: una camera da letto inesistente per Mario, che, è, in realtà, lo studio del padre. Ma non è della società, e di come si viveva, negli anni ’70, a Roma, che parla Un Borghese Piccolo Piccolo: parla della Fine.
La Fine di tutto. Della speranza della ricostruzione post bellica, della rottura della ruota del nepotismo, di una vita tranquilla dopo una vita di lavoro, la fine dell’amore, la fine della pulizia, la fine della Vita.
Mario non è un ragazzo particolarmente brillante. Giovanni ne è cosciente, e si ritrova ad andare a pregare – seppur amichevolmente, ottimo affresco del modo di rapportarsi tipicamente romano che ben comprendo e che, ancora, ci appartiene – il suo capoufficio, il dottor. Spaziani (Romolo Valli), affetto da una gravissima forma di forfora, che, per favorire al concorso pubblico quel figlio così poco sveglio, chiede in cambio a Giovanni l’affiliazione ad una loggia massonica. Che è un po’ una farsa, eh, e nessuno, là dentro, ci crede davvero.
Ma l’agognato giorno dell’agognatissimo concorso, l’impensabile avviene. Metro Eur, una rapina a mano armata, uno scontro a fuoco, Mario cade a terra senza vita, morto sul colpo. Amalia, che seguiva il telegiornale delle tredici, ascoltando la notizia della morte del figlio – orgogliosamente ragioniere – cade in stato catatonico. Giovanni, invece, decide che, passetto passetto, otterrà una sorta di giustizia fai da te.
E la seconda parte di Un Borghese Piccolo Piccolo è una discesa tragicomica negli inferi: fra Amalia che è, ormai, incapace di parlare, Giovanni che viene chiamato continuamente a riconoscere, fra tanti sospettati, proprio l’assassino del figlio. Che, infatti, alla fine, riconoscerà.
Giovanni Vivaldi è un pezzente. Indossa il suo abito migliore anche quando, alla camera mortuaria per il figlio, non avrà una vera e propria tomba di fronte la quale pregare: Monicelli è sì, il regista anticlericale per eccellenza, ma la realtà di una metropoli caotica, invivibile, assuefatta al dolore che provoca, ogni giorno, ai suoi minuscoli, formiche, abitanti, è palpabile, in quelle bare che esplodono – nel caos infernale di chi è rimasto, e che urla, strepita, contro un nemico che non si sa chi sia – se non la disorganizzazione stessa, la corruzione, il nepotismo, l’eterno clientelismo che è rimasto nel sangue romano sin dai tempi imperiali. E Giovanni, come tutti i romani, è attratto magneticamente da questo sistema, rassicurante, che esemplifica nelle frasi iniziali del film:
Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena.
Così come, dopo una vita da sottomesso, ha trovato la sua via nella singolare e autoraggiunta giustizia: e perde, così, l’ultimo bagliore di positività.
In Un Borghese Piccolo Piccolo, in cui Alberto Sordi giganteggia, ognuno è solo: proviene da un nido fatto d’apparenze, matrimoni infelici, begli abiti ma umili, superficialità commista ad ipocrisia e – nessuno, nessuno, nessuno – capace d’alcuna empatia, un concetto, forse, davvero estraneo a quella generazione che aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale. In questo senso si tratta di un film storico, una fotografia lampante di un dramma che ha rovinato chiunque, genitori, figli, nipoti, arrivando fino a noi. Rapporti disfunzionali, basati sull’essere, se assieme, un po’ meno poveri. Figli fatti nascere per avere qualcuno su cui riversare sia la propria rabbia che le proprie aspirazioni.
E quando questo, quest’ultimo contatto col bene del mondo, viene a mancare, ecco che tutto il male, la bruttura, il sudiciume, risalgono mefitici dalle fogne della Capitale. Un colpo ben assestato con un crick, un casolare in campagna, e la speranza muore per sempre.
La sceneggiatura di Un Borghese Piccolo Piccolo, il film più monicelliano di tutti, è affidata a Sergio Amidei, oltre che a Monicelli stesso, un personaggio che ebbe le mani in pasta con Roma Città Aperta, altre opere di Rossellini, e Vittorio de Sica, è ben calibrata, giusta nei tempi scenici da dedicare sia alla caratterizzazione dei pochi personaggi, che, soprattutto, a quella degli ambienti – logge massoniche (vicina era, all’epoca, la sensazione di essere governati da un’eminenza grigia), una casa inamidata, un ufficio disordinato – che raccontano una storia parallela e simile a quella di Giovanni: ambizione, triste vaudeville intermedio quale è la vita, decadenza, ed infine, morte.
La morte che il prete si augura per tutti, a fine film.
In ottica di anni ’20 di questo secolo, Un Borghese Piccolo Piccolo è, dunque, una rappresentazione distante ma attualissima dell’ingiustizia sociale, di un mondo invivibile, che, è in grado di portare allo stremo anche il più normale dei personaggi, e risvegliare in lui pulsioni animalesche e devastanti. Una giungla urbana, all’apparenza civile ed imbellettata, fatta d’ometti, piccole bugie, sotterfugi malevoli. Desolante, vuota, disperata.
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