Lunana – A Yak in the Classroom è un film bhutanese del 2020, shortlisted per l’Academy Awards 2022. Girato quasi interamente fra i monti del piccolo stato, in lingua Dzongkha.
C’è un piccolo stato a nord dell’India, incassato fra l’Himalaya e la pianura del Gange: il Bhutan. Abitato quasi esclusivamente da buddisti, ha attraversato un intensissimo periodo di crescita economica e sviluppo negli ultimi anni, complice anche il buongoverno del Re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck laureato ad Harvard, filo occidentale, e dalla profonda convinzione democratica. Suo è infatti il progetto Gross National Happiness: accanto allo sviluppo economico, va affiancato quello sociale – un popolo felice, che fa della gentilezza e dell’accoglienza il suo vessillo, potrà più rapidamente rincorrere le altre economie globali.
È partendo dall’esistenza del programma GNH che Lunana – Il villaggio alla fine del mondo parte: Ugyen (Sherab Dorji) è un maestro, impiegato proprio in tale programma, ma detesta il suo lavoro. Vive con la nonna a Thimphu, unica città degna di nota del Bhutan, e si considera un tipo all’occidentale. Suona la chitarra, scrive brani folk-pop in inglese – lingua che parla perfettamente – frequenta irish pub e ha una fidanzata more uxorio. Possiede abiti da hiking TheNorthFace, indossa Converse, infarcisce i suoi discorsi di espressioni in inglese americano. Eppure gli tocca mettersi addosso l’abito tradizionale per andare a lavoro.
La direttrice del centro di gestione dei partecipanti al GNH decide, per un tale scansafatiche, la punizione peggiore che c’è: mandarlo ad insegnare durante la breve estate ai bambini di Lunana, un villaggio disperso nell’Himalaya, a sei giorni di cammino dalla fermata dell’autobus più vicina. Più che cammino, di arrampicata. La disperazione coglie ben presto Ugyen, che abituato ai relativi agi della città, non vede come possa fisicamente sopravvivere vivendo di solo latte di yak.
Ad accoglierlo e a guidarlo nel lungo viaggio verso Lunana c’è un giovane pastore locale, Michen. I sei giorni di hiking, in compagnia di muli e superstizioni, sono per Ugyen strazianti. Nessuna connessione al 4g, vesciche e calli, cibo disgustoso e notti gelide. L’arrivo al villaggio non è poi dei migliori. L’intero paesello, di neanche un centinaio di anime, si è assembrato, a ben due ore di cammino da Lunana stessa, per accogliere il maestro, portatore di saggezza e custode del futuro. Ben due coppe di vino di riso gli vengono offerti dal capovillaggio, il solenne Asha.
Gli insegnanti possono toccare il futuro, dice Sem Pem a Ugyen, un’assennata bimba desiderosa di diventare un funzionario dello stato. Possono plasmarlo, vedere come il presente possa influenzarlo. Pian piano Ugyen si affezionerà alla piccola valle verde, coperta da escrementi di yak– mi raccomando, usa quelli secchi come miccia per il fuoco! – e inondata del suono della melodiosa voce della bella Saldon, figlia di Asha, e pastora (?) di yak. Saldon gli regalerà il suo Yak più anziano, Norbu, un indolente bue peloso, che prenderà residenza nella scuola.
Dolcezza, cura, ricostruzione: è ciò che trasmette Lunana – A Yak in the Classroom. Cura e attenzione ai particolari, come è tipico della cultura del piccolo Bhutan.
Ugyen, accolito della civiltà occidentale, quando giunge a Lunana, luogo senza acqua corrente, e la cui unica fonte di elettricità sono i pannelli solari che non sempre funzionano, è di fronte ad una scelta: abbandonare l’impresa, o accogliere la necessità di cure che quella scuola impone – cure, come preoccupazioni. Ma come anche gentilezza. Come una spolverata su un vetusto tavolo di legno. Come una lavagna – mai vista da quei bambini – realizzata col carbone. Pezzetto dopo pezzetto, filo d’erba dopo l’altro, Ugyen si appropria della cultura originaria del proprio stato, senza però perdere la sua: gli accordi di chitarra allietano le giornate dei bambini e degli abitanti del villaggio.
Ugyen scopre, però, che Lunana non è un angolo di paradiso: gli stessi problemi e dinamiche della civiltà del fondovalle sono traslati anche all’elevata altitudine del minuscolo insediamento: alcolismo, abusi familiari, child neglect. Ma gli abitanti di Lunana, con cura e dolcezza, si preoccupano gli uni per gli altri: c’è un karma condiviso, una società di pochi individui le cui interazioni sociali sono basate su rapporti profondi, sulla gentilezza, sulla sincerità. Proprio quest’ultima, strabordante nella sua semplicità, colma di stupore prima e di gioia poi il quasi inaridito Ugyen: una ciotola di zuppa, un risveglio addolcito dal sorriso di una bambina desiderosa di studiare. La suadente voce di Saldon che canta, indorata di luce del mattino, “Yak Lebi Lhadar”. I pomeriggi spesi nell’insegnamento del brano rimarranno impressi nel cuore, oramai addolcito, di Ugyen.
La magia del luogo splende nella regia di Pawo Choyning Dorji, indiano-bhutanese esordiente alla regia: i comprimari brillano di autenticità, e la semplicità della costruzione del lavoro riesce a porre l’accento sul messaggio stesso – l’importanza della cultura, dello scambio, della gentilezza. Fini a se stesse, lontane dal do ut des latino. La macchina da presa non spicca per tecnica, ma descrive con cura i momenti salienti del film, quasi timida inquisitrice.
Lunana è un lavoro che scalda il cuore del suo protagonista, ma anche del pubblico: sfido chiunque a non essersi commosso, nella scena finale. Il suo shortlisting fra i migliori film stranieri in competizione all’Oscar 2022 è stata più che meritata: il Bhutan, minuscolo stato con una fortissima identità culturale, merita di essere scoperto, apprezzato, amato.
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