Re Granchio è un film del 2021 di Alessandro Rigo de Righi e Matteo Zoppis, due italoamericani già noti per Il Solengo del 2015, presentato al Festival di Cannes nella sezione Quinzane des Realisateurs. E’ stato prodotto da Rai Cinema, Ring Film,Volpe Films, Wanka Cine, Shellac e distribuito da Istituto Luce.
È forse la curiosità verso la riscoperta delle origini che rende Re Granchio un lavoro unico. Una favola nerissima per gli abissi dell’esistenza, a partire da un piccolissimo borgo nella provincia viterbese. A finire fra i ghiacci della Terra del Fuoco.
La Bassa Tuscia: l’ambientazione della prima parte di Re Granchio
C’è un territorio, fra Roma e Viterbo, che è unico al mondo. È indorato dal sole estivo, e talvolta coperto dalla neve in inverno. Ci sono tre laghi, come gli occhi di un essere preistorico. È solcato da piccoli vulcani temibili, eruzioni di fanghiglia bollente e gas tossici nei profondi boschi di sempreverde che si arrampicano sulle colline – foglie a forma di stella, che in un autunno secco scricchiolano sotto ai piedi e turbinano come grandi falene giallo-arancione nella notte. La sua natura è gentile e crudele allo stesso tempo, umida sì d’acqua dei pre-Appennini; ma acqua tossica, ferrosa, calcarea. Le sue cascate sono improvvise, aerosol violenti e inaspettati di quei fossi che si riempiono solo in primavera. E c’è un solo fiume degno di questo nome: il Mignone. Lo stesso fiume che nutrì gli Etruschi, primo popolo che abitò questa regione, che scavò lunghe strade nella roccia, e poi i Falischi, loro imitatori. Entrambi lasciarono testimonianze indelebili nella roccia tufacea, friabile e cancerogena – ricca di radon; il tasso di malattie alla tiroide è molto piu’ alto che nel resto d’Italia: intere città, ma, soprattutto, necropoli. Minuscole abitazioni per i morti, lettini per esseri alti come una donnina odierna; e, laddove una volta riposavano statuette di divinità, in piccole alcova nella roccia, ora è solo muschio e ragnatele. Ma, una volta, quei luoghi freschi e umidi, erano abitati dai pastori, dai contadini: da quel popolo di poveri e poverissimi a cui ancora i miei nonni appartenevano, fatto di bevute di vino leggero, corse coi cavalli, duro lavoro ad inseguir pecore e a raccogliere spighe di grano e granturco. Un popolo semi-schiavizzato dal signorotto di turno: a Bracciano, nella mia città, c’erano i principi Odescalchi; a Vejano, poco distante, in un altro castello, gli Altieri.
Quel fiume, il Mignone, è stato usato da sempre a scopo umano. Molteplici dighe vennero costruite sul suo corso, ed una, in particolare, nel territorio di Oriolo Romano, è stata distrutta dalla sua perseveranza, ed ora il fiume sconfina in una piccola cascata che crea un laghetto naturale, a pochi metri da una sorgente termale. Questa suggestiva location è uno dei luoghi principali di Re Granchio.
Re Granchio: un western surreale che crea una sua mitologia ecumenica
Giorni nostri, stessa campagna dorata. Un gruppo d’anziani, sugli ottant’anni, si riunisce per una spaghettata domenicale. Si raccontano vecchie storie, nel dialetto tipico viterbese, a metà fra il romano e il toscano; si racconta di quel figlio del dottore a Vejano, che a inizio novecento, fece “’na cosa brutta” e venne mandato lontano, lontanissimo, in culo al mondo: in Patagonia.
Ed è qui che inizia l’epopea dell’anti-eroe Jodorowskiano Luciano, interpretato da Gabriele Silli. Luciano è un ubriacone, un ribelle, un matto, un debole: oppure, uno che se che la propria vita è segnata. Vejano è un paese quasi di frontiera, un vecchio west tutto italiano che si snoda fra piccole paludi, antichi ruderi di tempi piu’ floridi, terra rossa e la tirannia del principe. Luciano sa di essere con le spalle al muro, e non ha voglia né intenzione di rendere la propria vita conformata a ciò che ci si aspetta da lui, da uno còlto, ricco, come lui. Si innamora della fiera figlia di un pecoraro, un certo Severino: lei, Emma, come la canzone popolare marchigiana, incarnata da Maria Alexandra Lungu, è una ragazza di un’ingenuità e di una bellezza fuori dal tempo. Lui, Luciano, trova, in quelle acque paludose del Mignone, un monile etrusco. D’oro (ndR: è estremamente facile da queste parti trovare cimeli etruschi. Chiunque abbia un terreno edificabile troverà molto probabilmente una tomba o una villa romana, resti di vasellame, ossa). Lo regala a lei, Emma, la figlia del pastore. Quel pastore, che, assieme a Luciano, vorrebbe tanto pascere le pecore nel terreno del principe. I soldati del principe, però, per meschinità, si oppongono. Il gesto estremo di Luciano – il fuoco – porterà al suo esilio, laggiu’, nella terra del fuoco per eccellenza.
L’arcana, atavica, e pagana crudeltà della società della Vejano dei primi del ‘900 è ottimamente rappresentata: la dolcezza virginale di Emma alla festa di Sant’Orsio (ndr: si svolge ancora, ogni anno) è contrapposta alla bestialità delle villiche guardie. La cornice meravigliosa del parco del Mignone è, in Re Granchio, luogo di violenza; quella piccola cascata scavata nella diga si tinge del sangue di innocenti.
La stessa violenza, e la necessità di catarsi – fulcro del film – si ritrova in Patagonia. Luciano impara lo spagnolo e diviene un prete. Lui, che della fede non s’è mai interessato. È alla ricerca del tesoro scomparso di una nave arenatasi laggiu’, nell’isola grande della Terra del Fuoco. Un tesoro, in un lago. Un lago abitato solo da granchi, veri re di quel luogo dimenticato. Gli etruschi, antichi architetti in bassa Tuscia, e i conquistadores, ladri di ricchezze ed identità in America. Una nave arenata, come la vita di Luciano.
La strada verso la redenzione passa per l’avidità: fra El Topo e La Leggenda del Santo Bevitore
È ai rispettivi capolavori di Alejandro Jodorowski, sempre piu’ riscoperto dai giovani cineasti, e a quello che ad Ermanno Olmi valse il Leone d’Oro nel 1988, che il Re Granchio si rifà. Ma, in entrambi i casi, apporta novità al tema della leggenda oscura, tramandata di bocca in bocca, in quello stesso dialetto che si parla ancora nella bassa Tuscia, e sposta il focus verso l’interiorità. L’ambiente è sì protagonista nella pellicola, ma esso è interiorizzato, fra tronchi bianchi di betulle o canneti di palude, o sterminate montagne coperte di pietre glaciali. L’acqua è elemento fondamentale della spiritualità dei registi, come fonte battesimale laico e come sorgente di vita, neve o palude – o di morte. Di ritorno alla natura, di placido acquietarsi degli incubi e di riunione di fili temporali interrotti da un vastissimo oceano, che mai si vede, ma che è onnipresente. Da western provinciale laziale Re Granchio diviene guerra di frontiera, fra poveri, spinti dall’avidità e dalla scarsissima lungimiranza. Luciano è al di sopra degli altri: è un Santo, un santo dannato, forgiato nel fuoco e nel ghiaccio del proprio cuore; distruttore d’ordine pre-costituito nello stemma del principe Altieri che brucia, ladro dei ladri di leggende degli indiòs.
Naturalismo, attori locali e stranieri senza nome
La scelta degli interpreti, in Re Granchio, è fondamentale. Gli attori reclutati per interpretare gli anziani narratori sono anziani del luogo, e i pochi interpreti principali svolgono egregiamente il proprio lavoro. Gabriele Silli è un artista romano concettuale, che lavora con oli e materiali misti, che si è ottimamente confrontato con una nuova forma espressiva, mentre Maria Alexandra Lungu è di origini romene, cresciuta in Italia, che ha già lavorato con Alba Rohrwacher ne Le Meraviglie; il piu’ importante fra i pirati della Patagonia è Mariano Arche, autentico lupo di mare.
La fotografia di Simone D’Arcangelo è di scuola caravaggesca, oscura laddove il fuoco è l’unica fonte di luce e strettamente naturale nelle scene all’aperto: di nuovo, è l’ambiente a parlare, con la sua bellezza e, all’occorrenza, o i molteplici colori della campagna, o le scale di grigi e blu della Patagonia. La colonna sonora di Vittorio Giampietro (sound designer per pubblicità e corti, e collaboratore di de Righi e Zoppis) è puntuale e mai invadente.
Re Granchio è una pellicola ambiziosa, fantastica e che colpisce nel segno: il tempo si arena in un lago chiuso, nel quale ogni storia è solamente una molecola d’acqua, che interagisce con tutte le altre, dominato solo dalle correnti dei sogni.
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