The French Dispatch è una romantica ed estetica lettera d’amore al giornalismo e al quotidiano The New Yorker, dove il regista Wes Anderson mette in scena il suo stile magnetico, definito e riconoscibile. Un linguaggio straordinariamente coerente in quello che è un film episodico.
La nuova fatica di Anderson è una vera meditazione sull’arte e sui processi che portano alla creazione dell’arte; sulle forme che l’arte assume e i modi in cui l’arte si rende esplicita: dalla politica alla cucina. È un inno agli editori e a tutti gli altri che coltivano quello che viene definito “talento creativo”.
Veniamo catapultai nella fittizia cittadina francese di Ennui-sur-Blasé nella seconda metà del Novecento. Facciamo la conoscenza della redazione di un giornale, The French Dispatch, il cui direttore è Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray). Quando il cronista muore, tutta la redazione decide di riunirsi e dare forma ad un necrologio.
Dai loro ricordi vengono fuori quattro articoli che danno forma a quattro storie che raccontano viaggi, arte, politica e cucina.
La prima storia – Cronista di Biciclette – ci presenta il viaggio di Herbsaint Sazerac (Owen Wilson), che si addentra nei meandri della periferia della cittadina. Il personaggio è una sorta di alter ego comico di Anderson. La seconda storia – Il capolavoro di cemento – segue un pittore, Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), che è in prigione per aver commesso un feroce duplice omicidio. I suoi lavori vengono presi in considerazione da un giovane imprenditore (Adrian Brody). A raccontarci questa storia è la giornalista JKL Berensen (Tilda Swinton) che riesce a catturare l’attenzione del pubblico fin dalle prime battute.
La terza storia – Revisioni a un Manifesto – ci racconta il maggio francese del ’68 attraverso una storia d’amore tra una giornalista (Frances McDormand) e un giovane studente (Timothee Chalamet), un capitolo che in fin dei conti è un esame sulle proteste studentesche in Francia. La quarta storia – La Sala da Pranzo Privata del Commissario di Polizia – segue le vicende di uno chef (Jeffery Wright) che ci porta a vivere la storia più eccitante e avventurosa del film, tra cucina, rapimenti e droghe.
È tutto meticolosamente calibrato alle perfezione, dove le quattro storie sono rette ed accostate in maniera sincronica e sopraffina. Le parti si muovono in concerto. La sceneggiatura ci riempie le due ore con eventi ingombranti e pieni di vita, dove le vicende si annidano all’interno delle storie. Non veniamo mai lasciati soli, ma siamo sempre accompagnati.
La regia è piena di zoom di precisione e carrellate laterali che danno input e precisione al film. Anderson passa dal bianco e nero al colore, giocando allegramente con inquadrature simmetriche, proporzioni interessanti, miniature e sezioni trasversali ripiene di dettagli artigianali. Veniamo catapultati in questo mondo fantastico, un ideale immaginario in cui è davvero divertente sprofondare per due ore. Ogni fotogramma è una delizia visiva.
Troviamo un’imponente colonna sonora di Alexandre Desplat e la fotografia dai colori pastello di Robert Yeoman che è uno splendore per gli occhi. Senza dimenticare il superbo design di produzione di Adam Stockhausen, con i suoi set ingegnosi e le intricate miniature e modelli, vi confesso che solo questo vale il prezzo del biglietto.
The French Dispatch è un viaggio vertiginoso pieno zeppo di volti familiari in cui gli attori magnifici ci offrono performance deliziose ed eccentriche, d’altronde è tutto quello che ci aspettiamo da un ensemble ben orchestrato da Anderson. Sono conscia che nessun regista vivente ha uno stile visivo più distintivo e accattivante del regista texano.
In The French Dispatch ho ritrovato tutte quelle caratteristiche che amo dei film di Wes Anderson: una miscela tra il surrealismo ed il reale, elementi nostalgici e presenti, narrazioni intelligenti, dialoghi rapidi ed accattivanti, attori sublimi, storie nelle storie, set teatrali ed orchestrati ad arte.
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