Purtroppo, questi sono giorni difficili, nei quali tutta l’Italia sta affrontando un mostro chiamato COVID-19, la malattia causata dal coronavirus SARS-COV-2. Scuole, università, attività commerciali ed altri centri di aggregazione sono stati chiusi e quindi ci si ritrova a dover restare in casa, per la nostra salute e quella degli altri, e soprattutto a dover fare i conti con la “Noia“.
Ci lamentiamo sempre di non aver mai abbastanza tempo da poter dedicare ai nostri hobby ed ora è arrivato finalmente il momento di poterlo fare in tutta tranquillità: 15 giorni nei quali possiamo passeggiare (non in gruppo, mi raccomando!), leggere, cucinare o anche solo guardare un bel film.
Cominciamo dunque la carrellata per la prima settimana: un film al giorno, a partire da oggi.
Orizzonti di Gloria, regia di Stanley Kubrick, 1957
Il leggendario Stanley Kubrick confezionò, nel lontano 1957, sulla base del romanzo omonimo di Humphrey Cobb, la potente storia di Orizzonti di Gloria. Prima guerra mondiale, fronte inglese, la più grande carneficina volontaria dell’umanità: trenta milioni di morti, e una mission ancora più suicida. Quella di conquistare il Formicaio, una base tedesca ottimamente difesa. Un grande Kirk Douglas, ancora eroe violento da Ulisse e L’Uomo Paura, interpreta il colonnello Dax, un ex avvocato che ebbe il compito di guidare proprio l’assalto alla base tedesca; fra illeciti, processi farsa, e fucilazioni, Orizzonti di Gloria narra sì l’orrore della guerra, ma soprattutto ciò che tale orrore causa in esseri – non uomini – già nati meschini. Perché meschino è il generale Mireau, che apre il fuoco sui propri uomini e ne dispone la fucilazione per codardia.
Considerato a lungo un classico da perseguire nel filone First World War (il recente 1917 ancora ne coglie l’eredità) per il crudo realismo delle scene di shell shock e per le prolungate e serrate battaglie, Orizzonti di Gloria non può far altro che ricordarci la necessità di essere umani. Che sì, esiste il rigore: ma sotto di esso ci sono empatia, sim-patia, compassione. Che sono valori, questi ultimi, che non sono ristretti alle contingenze del momento – la guerra, la carestia, la pandemia – ma universali e fondanti la civiltà.
Noi siamo tutto, regia di Stella Meghie, 2017
Il film narra la storia di due ragazzi: Maddy (Amandla Stenberg) ed Olly (Nick Robinson). I due intrecceranno una potente storia d’amore sebbene Maddy sia malata. Alla ragazza, infatti, è stato diagnosticato un deficit immunitario che la espone a tutti i patogeni; per questo, la madre, tenterà (invano) di tenerla in isolamento in ambienti asettici fatti su misura per lei e ai quali solo pochi sono ammessi previa sterilizzazione in un’anticamera che permette l’accesso solo dopo esser stati perfettamente sterilizzati. A Maddy, quindi, non le è mai stato permesso di vivere la sua adolescenza, i primi amori e soprattutto le opportunità che la vita riserva ad ognuno di noi.
Maddy, stanca di poter vivere il suo amore con Olly solo dietro un vetro, che seppur trasparente per loro rappresenta un muro, deciderà spontaneamente di abbattere ogni barriera e finalmente di vivere la sua vita.
Ecco, oggi sta accadendo un po’ lo stesso: siamo tutti Maddy.
Siamo costretti a restare in casa, a non poterci abbracciare, baciare, toccare… perfino una semplice stretta di mano o una semplice boccata d’aria in compagnia ci sono vietati.
E’ diventato difficile anche fare la spesa o andare in farmacia: uno alla volta, con i guanti e se è possibile facendo la fila ad un metro di distanza gli uni dagli altri.
In una società in cui si è sempre di fretta, si dà troppa importanza al denaro, al consumo, al proprio benessere piuttosto che a quello dell’altro e soprattutto, meglio se quel benessere ce lo siamo guadagnati a discapito di qualche altro malcapitato, e nella quale non siamo più portati a far carezze, dare abbracci e soprattutto diamo per scontato qualsiasi forma d’affetto e coloro che ci stanno a fianco, credo che questo sia il modo migliore per tornare alle origini, alle cose semplici, fatte con amore e per amore. Stavamo perdendo la nostra natura d’uomo per lasciar spazio ad una totalmente sterile e scevra di ogni genere di sensibilità e socialità che inevitabilmente ci distinguono dagli esseri inanimati. Pesa più che mai chiuderci ai sorrisi, alle chiacchierate e alla spontaneità del mondo che ci circonda; fa estremamente male mettere in pausa la vita là fuori, ma dentro possiamo e dobbiamo continuare a vivere. Che questa sia l’opportunità per imparare ad ascoltarci, a coltivarci in primis dentro e poi fuori in funzione di un domani migliore rispetto ad oggi.
The Dressmaker, regia di Jocelyn Moorhouse, 2017
Un drama emotivo in costume, velatamente sarcastico, che si bilancia tra la descrizione approfondita di un evento e il superamento di più eventi. Ci troviamo in una cittadina australiana degli anni ’50, un luogo dalle atmosfere occidentali, ma pieno di bugie, omissioni, inganni e manipolazioni. Al centro della storia c’è Myrthe “Tilly” Dunnage (Kate Winslet), una sarta formata nei più grandi centri della moda: Milano, Parigi, Londra, tornata nel suo paese natale, usando le sue abilità professionali come couture, per scoprire la verità su quello che successe molti anni prima, quando da bambina fu mandata via in circostanze imprecise, accusata di aver ucciso un ragazzo.
The Dressmaker è un film brillante e audace, con quel tocco umoristico che aiuta lo scorrere delle sequenze. L’interpretazione cruda di Kate Winslet, che sembra cucita su di lei, regala una profondità e un fascino piacevole, ricordandoci che “la vendetta è un piatto che va servito freddo”.
Blue Valentine, regia di Derek Cianfrance, 2010
Straziante e commovente, Blue Valentine è rende giustizia a due degli attori più bravi di Hollywood: Michelle Williams e Ryan Gosling. Questo film ci offre un resoconto avverso e doloroso di una coppia sposata che un tempo era profondamente innamorata, ma che nel tempo si era separata. La realtà li spogliava della passione che una volta provavano l’uno verso l’altro. Il film salta avanti e indietro tra la storia di come si sono incontrati e l’attuale tumulto in cui si trovano ora. Il regista Derek Cianfrance fa un lavoro eccezionale nel portare sullo schermo la grinta e il disordine di un matrimonio fallito, evitando inutili e fastidiosi cliché, ma trattando l’argomento con insolita intuizione e grazia. Un film che cattura i momenti di massima gioiosità e minimi devastanti di una relazione coniugale, portando sul grande schermo quel senso di trascendenza cinematografica che è raro vedere nella settima arte.
Kramer contro Kramer, regia di Robert Benton, 1979
Uscito nel 1979, l’opera è un drama familiare sempre attuale – soprattutto alla luce del recentissimo Storia di un matrimonio – che narra la storia di Ted Kramer (Dustin Hoffman), un agente pubblicitario inferocito quando la moglie Joanna (Meryl Streep) lo lascia per “trovare se stessa”, sentendosi oppressa da quel nucleo familiare composto da lei, il marito e il suo giovane figlio, Billy (Justin Henry). Abituato a passare un tempo marginale con il figlio, Ted trova grande difficoltà nella genitorialità da single. Tuttavia, con il passare delle sequenze, siamo testimoni di un forte ravvicinamento tra padre e figlio, tanto che Ted arriva a dare priorità alla sua vita domestica rispetto al suo lavoro. Proprio quando sembra che tra i due si sia trovato il giusto equilibrio, torna Joanna da New York, dopo una pausa familiare di 18 mesi, decisa ad avere la custodia del bambino, dando il via ad una battaglia giudiziaria con il consorte dominata dagli avvocati.
Kramer contro Kramer è una pellicola reale, recitata in maniera impeccabile, che ha ispirato il recente Storia di un Matrimonio. Narra un’autopsia a 360 grandi di un rapporto coniugale e affronta i temi più caldi della tipica società occidentale di fine anni ’70: aumento dei divorzi, crescente presenza delle donne nella forza lavoro, crescita delle famiglie monoparentali.
Dunque, Kramer contro Kramer è un autentico classico della settima arte. Un film percettivo, toccante e intelligente sullo scioglimento dell’unità familiare.
Truman Show, regia di Peter Weir, 1998
È solo il 1998 quando Peter Weir decide di mettere in scena uno dei drammi esistenziali dell’uomo, oggi, più attuale che mai. Il racconto dell’esasperazione dei media e della televisione, un’esasperazione che finisce per far intrecciare realtà e finzione l’una nell’altra, senza più possibilità di distinzione. Un film che spinge a riflettere sul format dei reality show prima ancora che questi diventino popolari all’interno dei palinsesti mondiali. Un format da cui oggi nessuno riesce più a staccarsi.
Truman Burbank è nato e cresciuto in una cittadina, Seaheaven, che apparentemente sembra situata al centro di un’isola. Una cittadina dove ha sempre vissuto, senza mai muoversi, lì si è sposato e lavora in una compagnia di assicurazioni. Truman vive la sua vita in tranquillità, seguendo le stesse abitudini e ritualità ogni giorno, come dimostra la celebre frase che Truman ripete ogni mattina ai suoi vicini di casa: “Caso mai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!” Una vita apparentemente tranquilla perché quello che Truman non sa è che proprio la sua vita è la protagonista di un reality show televisivo. Ci sono cinquemila telecamere nascoste che riprendono ogni istante della sua giornata, sin dalla sua nascita. Le persone che lo circondano, i suoi affetti, sono attori che recitano un copione. Anche i luoghi della cittadina, come la cittadina stessa, sono finti e in realtà si trovano inseriti all’interno di una struttura a forma di cupola dove il regista, Christof, e gli autori del programma controllano ogni cosa. Nonostante il passare dei giorni e degli anni Truman non ha mai sospettato nulla, fino a quando però delle incongruenze non rompono l’equilibrio della finzione e lo portano a riflette e a sospettare. In cerca di risposte, Truman si rivolge ai suoi affetti, che però continuano a recitare la loro parte. Truman sente che qualcosa non va e decide di fuggire per scoprire la verità. Prende una barca e salpa in mare, inutile cercare di fermarlo perchè Truman è troppo determinato a scoprire la verità.
Lo strappo del cielo di Truman, che rompe con la barca il cielo di carta – cielo che circonda la struttura fittizia dove ha vissuto per anni – richiama lo strappo del cielo di Pirandello. L’alienazione dell’uomo che vive seguendo delle regole e delle abitudini, in un modo del tutto meccanico, fino a quando un evento non travolge tutte le presunte certezze su cui si basava il vivere stesso. E così lo strappo di Truman è il dialogo con il suo creatore, Christof, nel momento in cui Truman arriva alla fine del suo stesso mondo. In poche battute la vita che il protagonista aveva vissuto fino a quel momento diventa un puro racconto finzionale: Truman scopre di essere la star di “uno show televisivo che dà speranza, gioia ed esalta milioni di persone.”
“Non c’era niente di vero quindi?” chiede giustamente perplesso Truman. E la risposta di Christof è la triste verità che il film cerca di mettere in scena:
“Tu eri vero! Per questo era cosi bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te… le stesse ipocrisie, gli stessi inganni; ma nel mio mondo tu non hai niente da temere.”
Una verità scioccante che scatena nel pubblico un groviglio di emozioni: tra commozione e sconforto. Siamo veramente padroni della nostra vita? Conosciamo davvero chi ci circonda? Viviamo una realtà o in un mondo di finzione? Domande a cui ogni essere umano cerca di rispondere, cercando un senso al proprio essere e alla propria vita. Perché su una cosa Christof ha ragione: là fuori non c’è certo meno ipocrisia e più verità di quanta ce n’è all’interno del suo show.
Ipocrisia e finzione che vengono raccontante anche nel pubblico dello show, che prima sembrava sinceramente appassionato a Truman e poi finito il reality cambia canale in cerca di un nuovo intrattenimento.
Geostorm, regia di Dean Devlin, 2019
2019. In seguito ad una crisi climatica di portata globale gli Stati del mondo collaborano uniti alla costruzione di un sistema satellitare in grado di controllare gli elementi alla base del clima e quindi riuscire ad annullare tempeste, siccità, uragani. Il progetto prende il nome di Dutch Boy e viene affidato a Jake Lawson, che però ha qualche difficoltà a rispettare la catena di comando.
Tre anni dopo, una serie di straordinari eventi si verificano in tutto il mondo. Si pensa sia un’anomalia del sistema, e Jake viene inviato sulla stazione spaziale per risolvere l’eventuale avaria.
Jake (Gerard Butler) scopre che in realtà dietro a degli eventi apparentemente casuali si nasconde una serie di manomissioni che comporterebbero il manifestarsi di un geostorm, eventi metereologici catastrofici che scatenerebbero una reazione a catena fino a fondersi insieme. Per evitare tutto questo è necessario un reboot completo della stazione che comporterebbe mettere a rischio la vita di migliaia di persone.
Nonostante sia stato stroncato dalla critica, questo film dimostra quanto sia necessaria la collaborazione di tutto il mondo per porre rimedio all’emergenza climatica e anche quanto sia complicato ottenere la partecipazione di tutti. Una sola persona non può farsi carico del peso del mondo sulle proprie spalle. Certo è più facile a dirsi che a farsi. Ma possiamo cominciare dai piccoli gesti quotidiani: meglio fare qualcosa nel proprio piccolo che niente.
Martina Rocchio, Isabella Insolia, Valentino Bettega, Giulia Della Pelle, Tamara Santoro, Claudia Mustillo
Leggi anche
- Jack Savoretti e ospiti al Teatro degli Arcimboldi, Milano, 18 dicembre 2024: photogallery - Dicembre 18, 2024
- Savana Funk all’Auditorium Novecento di Napoli – Photogallery - Dicembre 16, 2024
- Lúcio Rosato, Trilogia della possibilità in Mostra al MuMi - Dicembre 11, 2024
1 commento su “Quarantena: un film al giorno. Prima parte”
I commenti sono chiusi.