Correva l’anno 1969 e non pochi eventi avevano già scosso il mondo. Si parlava della fine del sogno hippie e del flower power, dell’allunaggio dell’Apollo 11 e di quello che poi sarebbe diventato l’heavy metal da parte dei giovanissimi Black Sabbath. In the Court of the Crimson King si inserisce, dunque, prepotentemente, in questo scenario.
Ed è proprio in questo periodo che un’altra “bomba schizoide” è pronta alla detonazione, complici due iconici dipinti ed un ragazzo dedito alla costante ricerca musicale. L’allora ragazzo era il buon Robert Fripp e la sua “creatura”, i King Crimson.
È l’estate del 1969 e, sul palco di Hyde Park a Londra, sale anche il Re Cremisi per accompagnare il blues rock dei Rolling Stones di Mick Jagger e soci.
L’effetto è devastante, psichedelico, folle, in una parola “progressivo” e questo è perfettamente testimoniato dall’uscita, nell’ottobre dello stesso anno, dell’album d’esordio In the Court of the Crimson King.
Un album reso iconico dalla copertina con il famoso viso che urla, opera di Barry Godber, che però cambia del tutto aspetto sul retro con un’espressione più “serafica” ed un gesto quasi apotropaico.
Dal punto di vista della poetica crimsoniana l’autentico menestrello, senza nulla togliere a mister Fripp e all’esordiente Grek Lake prima della sua avventura con gli Emerson, Lake & Palmer, è senza dubbio il poeta e musicista britannico Peter Sinfield.
Ad accompagnare questa visione assolutamente fuori dagli schemi ci sono poi il polistrumentista Ian McDonald (lo ritroveremo anche nei Foreigner e in alcuni album di Steve Hackett e John Wetton) ed il batterista Michael Giles (“ricordo” dei seminali Giles, Giles & Fripp).
Ecco dunque il verbo che si può ascoltare nella corte del Re Cremisi:
21st Century Schizoid Man: “zampa di gatto, artiglio di ferro, neuro chirurghi che urlano a lungo alla porta velenosa della paranoia. Uomo schizoide del ventunesimo secolo”, l’apocalittica introduzione diventa ancora più acida grazie al sax di McDonald ed alla voce distorta di Lake.
Una narrazione sulle atrocità della guerra in Vietnam ed una violenta accusa alla società moderna dai toni ancora più acidi e distorti, soprattutto, perché si tratta di una realtà visibile ancora oggi.
I Talk to the Wind: delicata ed eterea, come le parole che si perdono nel vento, questa traccia rivela il lato più delicato della band che, stando ad alcuni interpretazioni, contesta la società moderna usando le parole di un giovane hippie.
Dimenticate dunque per qualche istante la batteria martellante e le chitarre elettriche distorte e lasciate spazio a flauti e sprazzi jazz.
Epitaph: l’atmosfera sognante si trasforma piano piano in un malinconico incubo che si stende sulle note generose del mellotron e della voce nostalgica di Lake.
Una voce che, cadenzata da dei colpi di batteria quasi funebri, scrive la parola fine sulla sua stessa esistenza ripetendo che “la confusione sarà il mio epitaffio”.
Moonchild: come da buon “discone” prog, quello che non poteva mancare assolutamente è una suite divisa in due parti. Una cantata e l’altra, rigorosamente, strumentale che prendono, rispettivamente, il nome de “Il sogno” e “L’illusione”.
Se la prima parte immerge l’ascoltatore in un universo onirico e medievale, con la giusta dose di malinconia in agguato dietro l’angolo, la seconda è più “astratta” e intervallata da piccoli interventi strumentali.
Tenue come un sogno che svanisce alle prime luci del mattino mentre la prima rugiada bagna i fili d’erba.
The Court of the Crimson King: il viaggio sonoro non poteva non concludersi in un posto diverso da quello già preannunciato dal titolo, ovvero, la famosa corte del famigerato Re Cremisi.
L’atmosfera è un costante rincorrersi tra parti acustiche, eteree e solenni, complici anche le quattro parte in cui il brano è distinto, dove la batteria di Giles sorregge alla perfezione le liriche di Sinfield cantate da Lake e l’intarsio musicale di Fripp e McDonald.
“Il giardiniere pianta un sempreverde mentre calpesta un fiore. Inseguo il vento di una nave a forma di prisma per assaggiare il dolce e l’amaro. Il giocoliere alza la mano, l’orchestra inizia mentre la ruota del mulino ruota lentamente nella corte del Re Cremisi”.
Per quanto riguarda le parti strumentali, beh, sono davvero il tocco di classe sopraffino che conferisce a questo brano la folle veste del “sovrano crimsoniano”.
Siamo dunque giunti al termine di questo viaggio immaginifico che, partendo dalla modernità e dal Medioevo, ci ha condotto fino a dove sogno ed incubo si fondono. È proprio il caso di “urlare”, il viso in copertina ce lo ricorda sempre, al capolavoro visto che, “In the Court of the Crimson King”, è uno dei capisaldi inoppugnabili del progressive rock.
Un disco, In the Court of the Crimson King, che, nonostante abbia i suoi bei anni sulle spalle, si lascia ascoltare ancora oggi con estremo piacere ed ha lasciato un’eredità davvero non da poco.
A testimonianza di questo vi sono le cover di band come Voivod, PFM, Ozzy Osbourne, Saxon, Twenty Four Hours, Asia, Afterhours e tante altre ancora. Il regno del Re Cremisi è ben lontano dalla fine perciò lunga vita al Re!
Vanni Versini
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