Les Chants de l’Aurore, Alcest: recensione

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È permeato da un’inaspettata gioia, Les Chants de L’Aurore, il nuovo album dei francesi Alcest: una profonda, totalizzante, obnubliante serenità. L’album è uscito il 21 giugno 2024 per Nuclear Blast.

Eppure, gli elementi sonori sono quanto di più distante dalla felicità – sensu strictu, banalotto – possa esistere: chitarre elettriche aggressive, doppia cassa, e solo campanelle lontane in Komorebi, opening track dell’album – ma è la capacità compositiva di Neige e Winterhalter che, includendo qualche riff di chitarra acustica, qualche vocalizzo sigurrossiano, trasforma un potenziale brano black metal in un’ode all’aurora. Un’aurora che non promette nulla di pericoloso: il sole non sorge dietro a montagne cariche di neve fragile, promesse di valanghe, ma su una pianura placida, attraversata da un fiume lento, in cui pesci ben pasciuti riposano nel fango.

Ecco, il paesaggio sonoro di Les Chants de l’Aurore degli Alcest si complica leggermente con L’Envol – l’”involarsi” – poiché, con l’aurora, nuvole cariche di pioggia, soffici come cotone, si intravedono all’orizzonte. Neige arricchisce il già ottimo songwriting di L’Envole – una suite che amplia le idee musicali di Komorebi – con un testo estremamente evocativo: con l’aurora, uccelli si librano in volo – anime liberate dalle necessità terrene, se non per qualche piccolissima, infinitesimale, macchiolina -, si nascondono dietro alle nuvole basse, e infine picchiano a terra, sguazzando nelle pozzanghere di rugiada. Di particolare pregio è il chorus di metà brano, sorretto da un wall of sound post-rock/black metal di altissimo impatto emotivo (qualcosa che, pur tentando, gli Anathema non sono mai riusciti a raggiungere). Gli aironi della cover svolazzano in una palude di pura ametista purpurea in Amethyste – brano che è sia un divertissment che un marchio di fabbrica degli Alcest, che include Sapphire da Spiritual Instinct del 2019. Divertissment, perché la struttura compositiva di Amethyste ricalca fortemente quella di Sapphire – sebbene l’ametista sia un silicato e lo zaffiro un ossido di alluminio – ma la stravolge, similmente alle forze tettoniche che, pur modificando la Terra, lasciano tracce di ciò che è stato prima. Brano maggiormente black metal dei primi due, ben descrive l’atmosfera di una miniera di pietre preziose – se si ha molta immaginazione.

Les Chants de l'Aurore, Alcest: recensione 1
Ciò che colpisce della prima metà di Les Chants de l’Aurore è l’equilibrio dei brani: gli Alcest non indugiano mai eccessivamente in uno stilema, che sia atmospheric black metal o folk, e, sebbene sorrette dalle stesse intelaiature, le canzoni dell’album risultano un collage di differenti generi e, più importanti, di diverse emozioni – serenità, gioia celestiale, inquietezza, curiosità, con quel sano pizzico di paura.

La bellissima Flamme Jumelle apre la seconda metà di Les Chants de L’Aurore, folkeggiando celtica: ciò che mancava ai primi due, lunghissimi, brani, Flamme Jumelle condensa in cinque minuti scarsi; l’airone si invola rapidamente, compie piroette, migra oltre terre lontane, libero. E guarda, confuso, dei fuochi fatui gemelli, mentre torna a casa nella sua palude. Reminiscence è una splendida ballad al pianoforte che non ha bisogno di descrizioni, e che aggiunge pregio ad un già eccellente album. L’Enfant de Lune è un topòs piuttosto comune nel metal/folk, sin dal brano dei Mecano del 1986: una donna gitana, disperatamente innamorata di un uomo che non la ricambiava, prega affinchè la Luna la aiuti. La luna accetta, ma pretende che il primo figlio della coppia divenga un figlio della luna. Il neonato, quando nasce, è bianco come il nostro satellite: l’uomo, folle di gelosia per il presunto tradimento, uccide la protagonista. La Luna assiste al dramma, e si fa culla – calante, crescente – per il neonato. Nel brano degli Alcest – metà in giapponese, metà in francese – è proprio il figlio della Luna il protagonista, che guarda noi povere anime piangenti, terrene, mentre la madre gioca fra le onde dell’oceano. Il brano evolve in quieto crescendo, che si arricchisce di cori infantili, nonostante il riff di chitarra su cui è basato continui a sussistere, una rassicurante costante: il finale è però un’esplosione di suoni, fra il misterioso e l’estatico, che coglie impreparati e lascia confusi. L’Adieu conclude Les Chants de L’Aurore: placide chitarre acustiche pizzicato, e un augurio per chi parte per un lungo viaggio. Un tranquillo accomiatarsi dal sommesso e quasi mai urlato – contenuto – saliscendi emotivo dell’album.

Musicalmente parlando, Les Chants de L’Aurore non esprime nulla di nuovo nella discografia degli Alcest. Eppure, ciò che lo rende eccelso è l’eleganza, semplice e mai ridondante, della composizione, nonché il delicatissimo bilanciamento di tutti gli elementi capaci di indurre emozione nell’ascoltatore.

Ad ora, sia per la qualità musicale espressa e per la bellezza dei testi – sempre più rara – , Les Chants de l’Aurore, è il mio migliore album del 2024.

Giulia Della Pelle
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