L’Ultima Casa Accogliente è l’undicesimo (!!!) album in studio degli Zen Circus, composti da Andrea Appino a voce e chitarra, Massimiliano Schiavelli al basso, Karim Qqru alla batteria e Francesco Pellegrini alla prima chitarra; anticipato dai singoli Catrame e Appesi alla Luna.
La rarefazione.
C’è stata un’epoca, nella storia umana, in cui non eravamo rarefatti. Non eravamo particelle in un cosmo caotico da noi stessi creati: eravamo pochi, troppo pochi per essere soli in mezzo a tutti. C’è stata un’epoca in cui l’Homo sapiens fu sull’orlo dell’estinzione, diecimila anni fa, all’epoca della catastrofe di Toba. Un supervulcano in Indonesia esplose, rilasciando migliaia di volte l’energia della più potente bomba atomica: inverni su inverni si susseguirono senza mai estati, un’artificiale era glaciale piombò all’improvviso sulla civiltà ancora agli albori, riducendo l’umanità ad uno sparuto gruppo di circa ventimila individui.
Probabilmente, i gruppetti finirono per unirsi gli uni agli altri, sino a raggiungere massa critica, e, infine, tornare a casa, dove tutto era iniziano: in Africa. Da lì, per la seconda volta (Out of Africa Theory, #2) l’Umanità ricominciò la diaspora su tutti i continenti.
Ed ecco, è di ciò, è del tornare a casa, del magnetismo del luogo natio, che parla L’Ultima Casa Accogliente: l’ultimo luogo che possa abbracciare un individuo – rarefatto, una particella a bassa energia, in un mare di Dirac ricolmo di funzioni d’onda – , farlo sentire protetto, nel ventre materno, al caldo. Un luogo dove nulla può avvenire di brutto.
È dal ventre materno che inizia il viaggio del nuovo, ennesimo album degli Zen Circus, oramai istituzione della musica italiana: da Catrame, in cui il tratto unitario dei quarantenni è palesemente esposto – una volta, fumare in gravidanza, alla fine, non faceva così male. Con contaminazioni più punk dei precedenti album e un dubbing estensivo sulla voce di Appino, la solitudine del singolo nella comunità, tema carissimo, viene snocciolata verso dopo verso:
Chiediamo verità per tutti gli uomini
Ma i primi siamo noi a dirci bugie orribili
Chi è senza peccato, non capirà
Ma un giorno tutto questo finirà…
Ma oltre alla madre, c’è spazio per il padre: morente, che nella fenomenologia dell’homo zencircusensi ha, da sempre, il ruolo di semplice donatore di sperma, e, nel caso di L’Ultima Casa Accoglienti, grilletto per l’accensione di abissali riflessioni sulla morte. Anzi, in termini darwiniani: sull’estinzione. Sull’inevitabile collo di bottiglia dal quale e al quale, prima o poi, torneremo.
L’infanzia e l’adolescenza dell’umanità e dell’homo zencircusensi si snodano e mescolano in Appesi alla Luna: intensa ballad alla chitarra acustica, che diviene, infine, marcetta; dalla finestra affacciata su una grande città, si lascia cullare, creando un microcosmo, una cupola infinita, azzurra o scura, che copre tutti noi. E la Luna, unica fonte di luce, che, in realtà, è, come tutti noi, schiava di qualcosa di infinitamente più grande: il Sole per lei, gentile e carezzevole sopra Lisbona, la Specie per noi umani, inquieta, imperiosa, prepotente.
L’Ultima Casa Accogliente è forse l’album più romantico degli Zen Circus. C’è del romanticismo difficile, cattivo, aspro, granuloso, in Come se Provassi Amore: c’è il distacco da quell’adolescenza sognante, e c’è la crescita verso lavori malpagati, l’emancipazione dalla famiglia – quella consapevolezza, difficile da maturare, da raziocinare, di essere altro da chi ti ha cresciuto: di essere tu, di avere la tua, personalissima, storia da raccontare. Che l’amore che provi o meno è tuo, solamente tuo. L’Homo de L’Ultima Casa Accoglienza si ferma a riflettere, guarda un ritaglio di cielo, e si accorge di essere invecchiato e di fare il turista fra i propri ricordi. C’è spazio per un pianoforte dolceamaro e per intonazioni carezzevoli e dolcissime di Appino in Non, ed è la fase del rimpianto. È l’età adulta: è il fallout nucleare, dopo l’esplosione del vulcano. Il bambino dell’umanità è morto, è oramai un fantasma che abita l’animo dell’adulto, è ricordo ed è ideale irraggiungibile.
Ma è soprattutto una supplica a non essere soli. È un’accorata preghiera a riconoscersi l’uno nell’altra, posta in forma di negazione: per questo, più potente, nel suo crescendo del refrain in accordi diminuiti.
Salvami dai mostri, dal mondo
Salvami da quello che voglio, il male profondo
Dalla morale, dall’obbedienza
Dalla normalità fatta sentenza
Dalla vergogna, dall’efficienza
la sicurezza, la sufficienza…
Il finale strumentale ricorda la psichedelia arrabbiata dei tempi di Andate tutti a fanculo, e la stessa rabbia – melensa, filtrata, verdastra – si ode nella chitarra iperdistorta che apre Bestia Rara, che, impastandoli con la materia politica, recupera i temi iperprovinciali che gli Zen Circus hanno abbondantemente esplorato, sino a scoprire ogni filo d’erba stenta che cresce in mezzo al lastricato sporco di un paesino di collina. Stavolta, però, la rabbia è diretta non all’alterità come male, ma all’alterità presente nel substrato paesano: in mezzo a tanti uomini senza numero quantico, particelle identiche, c’è una bestia rara, una donna troppo bella, troppo libera, troppo felice e gioiosa, troppo, dunque, puttana. Il legame al luogo ancestrale, il cordone ombelicale, ha il volto della mamma a vent’anni: swing, Ciao Sono Io, dondola in giri di basso, nella vita della giovane Nancy che sposa un uomo evanescente. Sullo sfondo di un paesino, calcetto polveroso, alzare i mattoni folkeggiando, per la prima volta e per infinite volte, corse nei campi di grano, figli dimenticati.
Lo stesso sentore gioioso – chissà se c’è euforia, nella confusione della vecchiaia, l’età che ora ha l’homo analizzato dagli Zen Circus – si ripete anche in Cattivo: con una nettissima citazione a L’Amore e la Violenza dei Baustelle, quell’uomo che ha avuto, o che vive, e che vivrà per sempre, in un tempo lasso e sfilacciato, una vita mesta e indifferente, si guarda attorno da lontano. Cattivo è una ballad post grunge extra corporea, di un uomo che si crede supervillain e pattuglia i cieli della metropoli da distruggere; guatando innocenti passanti, svuotato, un’anima che è già nell’aldilà.
Eppure, L’Ultima Casa Accogliente, ha lasciato per ultime le sorprese: il tiramisù della nonna, il liquore fatto in casa davanti al camino. Ecco che arriva 2050, un tipico brano uptempo in stile Zen Circus, arrabbiato come Viva, arreso come Catrame: veloce, scorre nichilista, nel tipico dialogo silenzioso che Appino tiene, spesso, con una donna irrealistica, inesistente, frutto della sua stessa coscienza, creazione artistica che ha una volontà limitata ed embrionale – ecco, come in Sto Pensando di Finirla Qui (leggi qui la nostra recensione). Cosa diremo di aver fatto, dunque, fra trent’anni? Avremo distrutto quella Terra che ci ha portato all’orlo dell’estinzione 75.000 anni fa?
Abbiamo disidratato il pianeta, abbiamo dissacrato stelle, ci siamo accoppiati senza capire, abbiamo strappato foreste come steli d’erba: ecco, qual è il lascito, dell’uomo del terzo millennio. Che, devastato dalla sua stessa, eterna, incapacità di crescere, di comprendere, di soffrire ed infine accettare il dolore, può solo tornare nel ventre materno, a casa, e, finalmente, dormire in pace, libero dalle responsabilità, accarezzato sui capelli ormai grigi, bianchi, verdi, tinti, nessuno: la sua vita s’inverte, il tempo scorre al contrario, il liquido amniotico torna nell’utero – la title track chiude l’album.
L’Ultima Casa Accogliente è una suite degli Zen Circus, ottimamente costruita, che, forse, può finalmente uguagliare, per lirismo ed ispirazione, Andate tutti a Fanculo
Si distacca dagli affettati ed artificiali artifizi emotivi e sociali de La Terza Guerra Mondiale, il degrado dei microcosmi de Il Fuoco in una Stanza, abbraccia, finalmente, l’epica onestà dimostrata col singolo sanremese (L’Amore è una dittatura) e nei lavori solisti di Appino (Il Testamento, in particolare), e sperimenta coi synth, gioca coi cambi di ritmo e tonalità, con la teatralità che gli Zen seppero dimostrare ad inizio carriera con Villa Inferno e Vita e Opinioni di Nello Scarpellini, Gentiluomo. Storie di vita vissuta universali, e non solo particolari, che emanano e vivono di pm10 e inquinanti atmosferici: l’uomo analizzato, raccontato, sviscerato in L’Ultima Casa Accogliente è disperato nella sua solitudine, ricerca, disperatamente, una connessione – con chicchessia, con, assolutamente, qualunque entità. Con la natura, col futuro, col passato, con gatti invisibili al buio, che, scorrono, in un unico minestrone riscaldato in un calderone sporco; coi bambini con cui giocava da piccolo, lasciando fluire fra le dita i capelli neri di una madre che fumava in gravidanza, la cravatta di un padre morente – immagini rarefatte, distanti eppure vicine. Il finale synth, esplosivo, post rock, Mokadelic e Mogwai, è molle, flaccido e caldo al punto giusto.
A casa risorgeremo. Ripartiremo da qui, dall’Africa, dai nostri appartamenti accoglienti, dalle nostre comfort zone sempre più piccole, infinitesimali. E ci riconnetteremo gli uni agli altri, ma per davvero: e impareremo ad amare, e cresceremo, e ci prenderemo le nostre responsabilità, e le querule lamentazioni di dicembre finiranno per sempre. E saremo adulti. E conquisteremo, di nuovo, il mondo.
L’Ultima Casa Accogliente è un album bellissimo, che guadagna di più ad ogni ascolto: ottimamente prodotto, di giusta lunghezza – non si ha mai la sensazione di trovarsi di fronte ad un filler, ad una sbavatura, ad un momento eccessivo o stucchevole – splendidamente mixato, ben eseguito. Abbiamo, finalmente, di fronte, un prodotto di indisputabile bellezza, che andrà a rilanciare, spero con tutto il cuore, il rock italiano, troppo tempo negletto nell’indie, nell’urban, nella trap, nelle brutture, nella depressione fake e nelle gioie irreali.
L’Amore è un sasso che lanci in un stagno
Il cerchio si allarga,
Se guardi bene al centro…sei tu, sei tu
E chi può odiarti di più?
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