Oceans of Slumber, l’omonimo album: recensione

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Oceans of Slumber è il nuovo album della band omonima, in uscita il 4 settembre 2020 per Century Media, in un’America totalmente cambiata.

Quando ascoltai per la prima volta un brano degli Ocean of Slumber – precisamente in quarantena, un venerdì, grazie alla Discover Weekly di Spotify – fu una rivelazione. Conoscevo già Strange Fruit, brano di Billie Holiday, scritto dal poeta Abel Meeropol. Singolo coviddiano degli Oceans of Slumber ne fu proprio una cover, leggermente velocizzata ma cantante nella stessa chiave di Holiday da Cammie Gilbert, la vocalist, afroamericana, della band. Il che già ci porta ad un punto interessantissimo: quante sono le band female lead nel metal che non siano sinfonico e che non rispondano all’abusato stilema bella/bestia declinato in varie forme? Pochissime. Nel doom, ancora meno. Nel progressive, si latita, le eccezioni si contano sulle dita di una mano (leggi qui la nostra intervista ai Pure Reason Revolution). E di una donna afroamericana? Che canta da contralto?

La prima particolarità degli Ocean of Slumber, giunti al loro quarto album, omonimo, consta proprio della loro talentuosa cantante – che è stata notata anche da Arjen Lucassen e parteciperà alla prossima fatica targata Ayreon, Transitus. Una voce scura, caldissima, blues, d’altri tempi: Aretha Franklin che si veste di nero e suona ai festival metal. Che fa duetti in growl, assieme a Semir Ozerkan.

oceans of slumber recensione

L’altra particolarità degli Ocean of Slumber è l’avere attualizzato – e mi si perdoni l’espressione – le sonorità degli Opeth, che, passati gli anni ’00 con Black Water Park, si sono addormentati in una certa mollezza; i texani, invece, stavolta sotto contratto con la prestigiosa Century Media, hanno preso il meglio di quella lezione – la lentezza, il dinamismo di basso e batteria in sottofondo, l’atmosfera – ma ne hanno aumentato l’impatto scenico e teatrale, proprio grazie alla voce espressiva e recitativa della Gilbert.

Dunque, Oceans of Slumber, il quarto, il primo per una major, è e deve essere l’album della conferma per l’ascesa della band nel gotha del prog: lo è?

La risposta è fortemente personale e devo esimermi dal dare giudizi trancianti: perché si passa dall’atmosferica, ottima colonna sonora per La Terra Desolata di Eliot, intro di Soundtrack to My Last Day (per l’appunto) al folk – pieno di fin troppi rimandi agli Agalloch – di Pray for Fire, che si caratterizza per un sorprendente cambio di tono a metà brano e frequentissime dissonanze con linee vocali particolarmente complesse e di difficile riproducibilità; in Oceans of Slumber, come anche nella suite I Mourn These Yellowed Leaves, si rifugge totalmente, completamente, scappandone in una fuga scalcitante, falsamente scoordinato, come i passi di un Fremen che scappa da Shai-Ulud, la forma canzone. Proprio questo brano, posto al centro dell’album, ne è la punta di diamante e, rotolante nella doppia cassa di Dobber Beverly, fornisce un ottimo esempio di come unire narrazione – un musical oscuro – ad un elevatissimo pregio tecnico, fatto di un mixing magistrale, un suono avvolgente e caldo – sebbene di disperato, eterno, molle, abbandonato sonno si tratti, di foglie secche, di porte del purgatorio, di un oceano fatto d’onde di piombo che schiaccia il timido marinaio.

Oceans of Slumber, l'omonimo album: recensione 1

Oceans of Slumber descrive l’esplorazione metafisica e artistica del concetto di “sonno”, dunque.

Di letargo, come in Return to the Earth Below, ballad piano driven e dal chorus sussurrato in lower key, che sa di commiato fantastico dalla vita; di un eroe che, per ora, abbandona il mondo, ma tornerà nel momento del bisogno.  

Darkness carved its mark in me

Carved its mark in everything

But I’m done, I’m done running

I stand in the rain

Here I stand

Purge my fear, and make my claim

L’intrusione del theremin prima e l’esplosione gothic metal che ne segue – degna dei più gloriosi momenti degli Anathema e dei Sirenia – suggella lo straziante finale di uno dei migliori brani dell’album. Superato, però, nella gemma che è racchiusa nello stesso scettro magico di I Mourn These Yellowed Leaves, To the Sea.

In cui l’oceano di buio e di sonno senza sogni diviene un synth penetrante e oscuro, su cui si innestano tutti gli altri strumenti, in cori distantissimi purgatoriali, in un concerto di gabbiani, di sirene, di kraken – un marinaio, appunto, triste e solo, al limite della pazzia (The Lighthouse di Robert Eggers avranno forse visto, i nostri?) – che diviene universale e trascinante: impossibile, dunque, non rimanere incantati dalla potenza espressiva del primo singolo da Oceans of Slumber, che si chiude con una sezione blueseggiante in cui la Gilbert dà il meglio di sé, esattamente come nelle modulazioni che ha introdotto nella cover di Strange Fruit.

Gli Ocean of Slumber non hanno mai dato segno di ricercare l’epicità nei loro lavori, che sono caratterizzati da un mood costante di fondo: nel caso del loro omonimo album questo stilema viene rotto dalla presenza di intermezzi come Imperfect Divinity e September (Those Who come Before), che preludono a brani aggressivi e sorprendenti come The Adorned Fathomless Creation, che in un growl e nella voce pulita, sorretti da una base thrash metal cadenzata dalla sempre geniale batteria di Beverly, che lavora come i Sepultura (leggi qui la nostra recensione di Quadra) mentre il brano si schiude nei migliori lavori degli In Flames – insondabile ne è il significato, insondabile come la mente di un serial killer, o come la rabbia, l’angoscia, emozioni devastanti e totalizzanti, e, nella loro insita natura, incomprensibili.

Purtroppo, in Oceans of Slumber, che si caratterizza per una lunghezza impressionante – 72 minuti di musica ininterrotta – sono presenti anche dei punti morti, una sensazione di filler prepotente si avverte in The Colors of Grace e Total Failure Apparatus, che ricalca The Adorned Fathomless Creation osando, però, ancora maggiormente, con gli acuti di Cammie Gilbert. Il diodo finale di The Red Flower – cui manca il mordente di To The Sea – e Wolf Moon chiude, infine, Oceans of Slumber. La cover dei Type O Negative, magistralmente realizzata con un lavoro di synth e soundscape che ha del geniale, gioca su particolarissime sonorità rassicuranti di accordi maggiori e contrappunti in la e fa, ed è il sole che squarcia il cielo buio dell’album, e che porta al risveglio finale – che porta alla speranza, perché le foglie ingiallite saranno rimpiazzate da gemme verdi – col più strano dei significati: la vita vera, cosciente, per il licantropo, è, forse, quella che inizia con la luna piena. Il resto è sogno dai colori pastello, manca dell’intensità data dalla magia e dalla ferinità.

Come ho già detto, mi esimerò dal dare giudizi trancianti, perché Oceans of Slumber è un album complesso di complessa fruibilità, ricchissimo in produzione ed incredibilmente stratificato nella composizione – layer su layer su layer – in cui, proprio per la vaghezza del concept, ognuno può percepire ciò che vuole.

Esso, però, contiene un’infinita passione ed un grandissimo cuore: non è un compitino, non è un lavoro fatto per forza e rapidità dopo The Banished Heart; è musica sentita, voluta, desiderata, sognata per anni prima di essere realizzata, partorita con dolore durante una pandemia, in un mondo differente da ciò che era prima. Un ascolto obbligato per questo triste anno.

Giulia Della Pelle
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