Pretty Vicious è il nuovo album dei The Struts, uscito per Big Machine/Varvatos il 3 novembre 2023.
Prendi una donna, trattala male” cantava in Teorema Marco Ferradini. E noi gli abbiamo dato contro per anni, con tutte noi stesse, lo abbiamo incolpato di aver mandato messaggi negativi e di averci messo in questa situazione di squilibrio anche nel piano delle relazioni. Ovviamente abbiamo ragione noi, ma non riusciamo ancora a spiegare – nemmeno dopo anni di studi e di lotte – come mai i ragazzi che ci fanno stare male continuano ad essere di moda.
Non è colpa nostra, è colpa loro: non sanno qual è il loro problema, hanno bisogno d’amore ma proprio non riescono a farselo bastare e devono cercare l’avventura, fare torti a destra e manca e poi – immancabilmente – tornare con la coda tra le gambe da chi sanno che li perdonerà sempre. Chi meglio di Luke Spiller – il leader dei The Struts – per raccontare ancora una volta il dramma senza tempo del ragazzo “malessere”? Lui che ha rubato la scena a tutti quando è apparso insieme a Ke$ha con i pantaloni a righe a là Mick Jagger (abbinati alla bocca non si poteva pensare ad altri) e che ha cambiato acconciature e stili come un vero dandy senza mai cambiare – invece – nella musica.
Per questo mi ero presa una pausa da questa band, mi avevano annoiato le ultime uscite, ma mi sono incuriosita dal titolo del nuovo album e ho voluto dar loro un’altra possibilità.
Ho fatto bene: Pretty Vicious è un progetto ben fatto e coerente – non brilla per originalità, ma la maggior parte dei brani risulta interessante.
I testi di Pretty Vicious raccontano Spiller come un personaggio da musical, un incrocio tra un Faust e un Dorian Grey, protagonista di quello che sembra a tutti gli effetti un musical sul dramma senza tempo del ragazzaccio.
Atto I: La noia
Il progetto si apre con “Too good at raising Hell”, un brano energico e leggero che introduce perfettamente al mood: racconta di una relazione apparentemente senza problemi ma che non può non portare un po’ di noia. Di quando ci si chiede: “Ma sono io? Am I the drama?” (in questo caso, probabilmente sì è lui).
“Pretty vicious” è appena dopo – è stato l’ultimo singolo – e sembra completare il puzzle: è la canzone che dà il nome all’album, ma il ritornello è un po’ ripetitivo e la canzone non brilla. Chissà perché hanno scelto proprio questa per riassumere lo spirito dell’album. Subito dopo arriva “I won’t run”, che come sonorità ricorda molto Bryan Adams, c’è qualcosa di BonJovi e forse di Bruce Springsteen. È una canzone motivante che racconta della voglia di rialzarsi dopo ogni caduta: il tema non è dei più originali, ma il brano è molto ben fatto e fa la sua bella figura.
Atto II: Non sei tu…
Ma era “Hands on me” la canzone che stavo aspettando: sentendola non ho potuto non sospirare “Eccoli, sono tornati”. Il brano in perfetto stile The Struts che unisce la sonorità la schitarrata British rock al testo cheesy; il ritornello rimane in testa e la batteria non lascia scampo, bisogna almeno pestare i piedi per provare a tenere il tempo. Dieci su dieci, centro.
Anche “Do what you want” è perfettamente loro: il testo va a completare l’immagine delle canzoni precedenti, ma il sound è più maturo. Qui le sonorità ricordano i primi Queen, soprattutto nel ritornello: non si può non pensare che in live questa sarà una bomba. “Rockstar” è il terzo singolo: upbeat, molto ritmata ed energica, qui parliamo di rock per così dire, come facciamo con i 5 Seconds of Summer, però ci piace, eccome se ci piace.
“Remember the name” ricorda forse un po’ troppo BonJovi (va bene, va sempre bene!): è un altro brano leggero e ritmato che inneggia alla libertà e al divertimento. “I’m alive, be my guide, I run the fast lane, remember the name!”. Non brilla all’interno di Pretty Vicious ed è ben posizionato perché sembra chiudere la parabola di delirio di onnipotenza mascolino.
Atto III: … Sono io
Subito dopo arriva infatti “Bad decisions”, che se fosse un personaggio fittizio sarebbe quello interpretato da Hugh Grant nella saga di Bridget Jones. Ah, quanto ci fa pena questo malessere sofferente che piange delle sue decisioni e dei suoi sbagli: dieci su dieci. Finalmente un brano lento dopo tutta questa agitazione e non deludono: hanno trovato le parole giuste e un sound che si integra perfettamente con quello degli altri brani riuscendo ad essere diverso, sì, ma mai noioso né fuori posto.
Finale: How to be a Heartbreaker
“You deserve a better love and you know that I’m right” è tutto quello che serve trascrivere di Better Love, che è un altro brano perfettamente in loro stile in cui Spiller fa il gradasso e si pavoneggia ma con stile. Qui non sembra più parlare della stessa relazione visto che si propone come sostituto ad un partner già esistente, ma comunque la canzone è orecchiabile e anche se non è tra i brani più forti non delude. Si ritorna al filone della relazione introdotta all’inizio con “Give me some blood”, una ballad dal sound più originale. Il testo racconta la stessa sensazione – manca sempre quel pepe: “All outta love, you gotta get me out; I’ve been a gentleman, you gotta help me out”. Chiara l’ispirazione ai Def Leppard, che non scade nell’imitazione.
L’ultimo brano di Pretty Vicious, “Somebody Someday”, chiude l’album con un ritorno al pianoforte e al sound da Indie – Triste – Piano Bar, ma riprende il filone iniziato da “I won’t run” con un racconto su come il cantante ha trovato la sua strada e ha seguito i suoi sogni.
Insomma, Pretty Vicious dei The Struts non è un album che dimostra sensibilità, profondità o particolare voglia di condividere emozioni intime e personali. È però un album ben fatto, coerente, che si inserisce perfettamente nella loro discografia ma in cui si capisce che sono maturati come musicisti.
Come autori sono maturati, ma si raccontano ancora come dei ragazzini: invincibili, irresistibili, irraggiungibili. Hanno le loro giornate no, ma poi passano (tendenzialmente quando si guardano allo specchio). Per avere un album un po’ più ragionato forse si deve attendere come si attende il principe azzurro: divertendosi con gli amori sbagliati.
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