Emancipation, recensione

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Emancipation è un film del 2022, per la regia di Antoine Fuqua e con protagonista Will Smith nel ruolo dello schiavo Peter. Il film è distribuito a partire dal 9 dicembre 2022 su Apple tv.

Ha fatto scalpore in novembre la notizia che, durante un referendum, in Louisiana, il voto popolare non abbia abolito la schiavitù. Mi spiego meglio. La schiavitù, come la si conosce, è stata formalmente abolita da Abraham Lincoln nel 1863, poi tramutato nel Tredicesimo emendamento nel 1865, ma tale decisione non necessariamente è mai stata ratificata nelle costituzioni di alcuni degli stati del sud che avevano maggior interesse nella schiavitù stessa – fra cui, la Louisiana, fra gli stati chiamati ad abolire la schiavitù come pena in caso di gravi crimini. Tale articolo, nello stato del jazz, non è per l’appunto passato.

Sono passati meno di due secoli dalla terribile foto di Whipped Peter, vero nome Gordon, uno schiavo riuscito a scappare dalla fattoria nel ’63 e riuscito ad unirsi alle forze nordiste. La storia di Emancipation è vagamente basata su tale storia vera. Peter, uomo di età sconosciuta, lavora per un coltivatore di cotone da quale parte nel sud, fra bayou e alligatori; è di origine haitiana, e parla creolo con sua moglie Dodienne (Charmaine Bingwa) e i loro tre figli. Viene venduto ad un costruttore di ferrovie, il crudele Fassel (Ben Foster), che è perennemente circondato e protetto dai suoi cani da guardia loppidi ed umani – quest’ultimi, fra cui un nero, collaborazionista di quei bianchi.

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Peter, però, è indomito ed intelligente. Insieme ad altri due schiavi, Andrè (Mustafa Shakir) e John (Michael Luwoye), riesce a scappare dal campo con uno stratagemma. I tre uomini decidono di dividersi, dando dunque inizio ad una caccia spietata da parte di Fassel e dei suoi sgherri.  Alla fine, la storia di Peter seguirà quella del Gordon storico.

Visivamente superbo, Emancipation fa un grande uso dei colori, nella fotografia di Robert Richardson (The Aviator, Shutter Island): quasi in bianco e nero per la prima parte del film, durante la disperata fuga per la libertà, solo i verdi della vegetazione sono visibili, e il sangue, di alligatori e di umani, è solo una sostanza nera come pece. Sul finale, dopo l’Emancipation act e al riabbracciare della famiglia, il blu della divista nordista brilla come il cielo e il bianco degli occhi degli attori – ovviamente quasi tutti di colore – è ravvivato come neve. Peraltro, la regia di Fuqua sembra più seguire il lavoro di Richardson che uno stile proprio: insiste sulle inquadrature che porterebbero ad una migliore resa del colore stesso, ad una bellezza visiva quasi scolastica, che talvolta risulta spiazzante e mal commisurata. I voli del drone sui campi di cotone non sono che altro che fiocchi bianchi con arbusti grigi; quelle figure bluastre e fangose sul campo di battaglia, cannoni a parte, sono solo soldatini di legno.

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In tal senso, Emancipation è un film guidato quasi esclusivamente, nel comparto visivo, dal colore; e la narrazione stessa, nonché la lunghezza delle scene, sono fortemente influenzate dalla caratura di Richardson stesso, tanto che lo stile di Fuqua, nervoso e anni ‘80 nei suoi bei film d’azione che abbiamo tanto amato ad inizio ’00 (King Arthur, Brooklyn’s Finest), sparisce. Le scene raramente superano i 3 minuti di lunghezza, e se si eccettua il caso di una pregnante conversazione fra un Peter incarcerato che chiede carne a Fassel e un monologo attorno al fuoco di quest’ultimo, sostanzialmente incapaci di costruire alcun pathòs. Emancipation è un film moderno, e non in senso buono: sembra essere stato concepito per colpire lo spettatore visivamente ma non emotivamente – uno spettatore che ha una soglia dell’attenzione, peraltro, bassissima.

Altra nota di demerito risulta essere la scelta dei dialoghi: sono sì, pregni d’umanità e di giustissime rivendicazioni da parte degli schiavizzati, ma scontati e banali. Dal canto loro, però, tutti gli attori, Will Smith in primis, regalando delle ottime performance – Foster, nel comparto cattivi, però, non uguaglia la straordinaria bravura di Fassbender in un simile ruolo in 12 anni schiavo. Come, d’altro, Will Smith non è Chiwetel Ejiofor, maestro di recitazione semplicemente con gli occhi. Il paragone con il capolavoro di Steve McQueen è purtroppo immediato ed ovvio, ed Emancipation, sebbene concepito come film d’azione, ne esce con le ossa rotte dal punto di vista prettamente artistico.

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Il dispiego di uomini e mezzi, nonché di scelta delle location, in Emancipation, è però impressionante. La ricerca dell’accuratezza storica è indubbiamente eccezionale, nelle divise, e nello scegliere di ritrarre proprio la famosa foto del Whipped Peter, che tanto colpì il movimento abolizionista nordista: in quella posa, dignitosa e descrittiva, Will Smith ha forse costruito l’apice del film. Le bayou e le paludi del Sud sono reali, pullulano di alligatori e di germi pronti a causare sepsi, di villette di ricchi proprietari terrieri immerse nel verde, e riveriti da abbrutiti schiavi. Il passaggio di Peter, in una di queste, causa infine una rivolta, la distruzione della villa stessa: è forse un tentativo di catarsi nello script un po’ debole, del film – di creare una mitologia interna al personaggio di Peter.

In sostanza, Emancipation è un film d’azione che intrattiene, ma non colpisce: è indubbiamente un buon modo per far conoscere gli orrori della schiavitù americana a chi non ne fosse ancora (colpevolmente) a conoscenza, ma molti altri sono i prodotti che hanno sintetizzato con maggior efficace secoli di orrore.

Giulia Della Pelle
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