Korn: Requiem [Recensione]

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I Korn tornato sulla scena metal mondiale con il loro nuovo album Requiem, dopo che, nel 2019, riuscirono quasi a tornare alle origini con The Nothing. Questo nuovo lavoro rappresenta quasi il secondo della loro nuova vita, anche se non manca il ritorno di nuove sperimentazioni.

Per me i Korn fanno parte di quel gruppo di band che sono perennemente prese di mira dai “puristi”: da una parte quelli del metal, che vanno contro il gruppo che ha come colpa il far parte di quella storia di un nu-metal accusato di aver “ucciso” il “vero metal”, e dall’altra presi di mira dai fan che non hanno intenzione di accettare certe sperimentazioni. E non è un caso che uno dei loro album di maggior successo negli ultimi anni sia stato proprio The Nothing che si è avvicinato molto al sound delle origini della band.

Quello che ci riserverà il nuovo album dei Korn, Requiem, a detta della band stessa, è stato fatto con molto calma a causa dell’impossibilità, dovuta alla pandemia, di fare dei tour mondiali. Più tempo per comporre e registrare tutti insieme, cercando di lavorare su ogni singolo dettaglio dei pezzi senza nessun tipo di fretta dovuta ad una certa scadenza. Così facendo si è riusciti a lavorare in modi molto diversi dai precedenti decenni.

Requiem

Non so quanto sarà facile per il nuovo album dei Korn superare i livelli del suo predecessore, ma probabilmente, saranno i dettagli a farla da padrone, quei dettagli che ci si è potuti permettere di perfezionare grazie all’assenza di pressione

Nove tracce possono essere, a prima vista, decisamente poche per Requiem, soprattutto se esso porta il “peso” di essere un album fatto senza nessuna fretta e su cui si è potuto lavorare per anni non pensando minimamente ad una consegna finale. Ma se ci si ragiona un minimo, è proprio da questi pochi brani che i Korn ci fanno capire la tanta cura dei dettagli, poche tracce ma tanto lavoro su ognuna di esse.

La prima delle nove tracce di Requiem è “Forgotten”, pezzo che si apre con il classico riff che viene seguito dal resto della band e che si ripete nei ritornelli, separati da strofe che spezzano il ritmo della canzone, un brano a due facce, di facile composizione ma che da il massimo risultato. A seguire abbiamo “Let The Dark Do The Rest”, in cui a farla da padrone sono decisamente i growl del front-man Jonathan Davis. Con “Start The Healing abbiamo la prima traccia che più stimola le orecchie dell’ascoltatore, un brano che si avvicina, a modo suo, ai Korn più “antichi”.

Dopo l’ascolto dei primi tre pezzi presenti in Requiem possiamo dire che la cura dettagli c’è, lo si sente dal quando ogni brano segua una logica di sound ben precisa, ma manca quella sperimentazione tanto nominata

Quando si tratta di grandi band come i Korn, andare a cercare la cura dei dettagli delle varie canzoni è difficile, per il semplice motivo che, anche se fatti in poco tempo, gli album hanno alle spalle sempre grandi produzioni che riescono a far sempre grandi lavori anche se essi vengono fatti in pochi mesi. Allora nel caso di Requiem dobbiamo concentrarci su come scorrono tutti e nove i pezzi, su come si allacciano l’uno all’altro.

Requiem

A dimostrazione di questa cura di precisione dei dettagli ci sono le due tracce “Lost in the Grandeur” e “Disconnect”, di cui quasi non ci si accorge del cambio di canzone, come se fossero fatte apposta per essere una dopo l’altra. Una piccola caratteristica, a cui spesso neanche ci si fa caso, eppure i Korn la esaltano in Requiem, facendo sì che l’ascoltatore possa passare precisamente 32 minuti e 39 secondi rilassandosi, un vero e proprio viaggio.

Non è tutto oro quel che luccica, ma anche se in Requiem non tutte le tracce riescono a stupire, si riesce ad apprezzare il lavoro dei Korn, ed in questo aiuta, e non poco, il fatto che siano solamente nove tracce

Fin’ora possiamo parlare di Requiem come un album “importante”, non del tutto, ma perfetto quanto basta per far sì che possa essere considerato degno di essere un disco dei Korn, anche se non tutte le tracce riescono a stupire. Una di queste è “Hopeless And Beaten”, una linea vocale che riporta ai vecchi tempi, ma una parte strumentale troppo lontana dal sound della band, anche nel caso della loro era “moderna”. Si può fare lo stesso discorso per la traccia successiva, “Penance to Sorrow”, ma se nel caso della canzone precedente abbiamo un riff che, nel suo piccolo, riempie, in questo caso abbiamo dei riff troppo vuoti e poveri di idee.

Se tante band della scena metal internazionale, ultimamente, sta trovando difficoltà nel rilasciare lavori di livello i Korn riescono, nel loro piccolo, a sfornare un album non definibile capolavoro ma che dimostra come l’attesa paghi, ed anche tanto, anche se essa significa far aspettare anni tra un album ed altro. Requiem con tutta calma, sperando che, in parte, questo studio dei dettagli diventi “normalità” per tutte le band.

Marco Mancinelli
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