Drive my Car, recensione

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Drive My Car è un film del 2021 di Ryūsuke Hamaguchi, candidato al miglior film agli Academy Awards 2022. Una delicata favola di rimorso e lutto.

What can we do? We must live our lives. Yes, we shall live, Uncle Vanya. We shall live through the long procession of days before us, and through the long evenings; we shall patiently bear the trials that fate imposes on us; we shall work for others without rest, both now and when we are old; and when our last hour comes we shall meet it humbly, and there, beyond the grave, we shall say that we have suffered and wept, that our life was bitter, and God will have pity on us.

È da Zio Vanya, una delle opere più famose e più rappresentate di Anton Cechov, che bisogna partire, per comprendere il complesso di minuscoli eventi umani che si susseguono ed intrecciano in Drive my Car, di Ryūsuke Hamaguchi, dramma giapponese tratto da un racconto di Murakami Haruki. Il titolo, come nel caso di Norwegian Wood, prende ispirazione da un brano dei Beatles.

Drive My Car: trama

Drive my Car è nettamente diviso in un “prima” ed un “dopo”. Talvolta capita che, nella vita di un essere umano, cadano dei meteoriti; degli shock così intensi che è impossibile nascondere il cratere, e, per rendersi conto dei suoi lembi, rialzati rispetto alla superfice, richiede tanto, troppo tempo. Il pre-fine del mondo, su Drive My Car, è incarnato dalla persona di Oto (Reika Kirishima), la bella moglie del protagonista della pellicola, Yusuke Kafuku (interpretato da Hidetoshi Nishijima): ancora vivente, ancora respirante la nostra stessa aria. Yusuke è un attore di successo, Oto una drammaturga ed ex attrice. Lei ha un modo particolare di comporre le proprie storie: dopo aver avuto un orgasmo, in un rapporto sessuale, inizia a narrare il canovaccio base dei drammi al partner. E Yusuke sa, sa perfettamente, di non essere l’unico a conoscere le sue storie. La mattina dopo, con una tazza di caffè, Yusuke prende appunti su ciò che ricorda riguardo una strana storia di una ragazza – un tempo lampreda, pesci parassiti dotati di grossi denti ad uncino che usano per ancorarsi ad altri pesci ossei e succhiarne il sangue – che si intrufola in casa del suo amato, vi lascia e prende piccoli oggetti – penne, libri, matite – fino a masturbarsi sul suo letto. Come Yelena col suo amato Astrov in Zio Vanya.

Quella sarà, purtroppo, l’ultima volta che Yusuke vedrà Oto viva, ed è da lì che inizia il “dopo”, in Drive my Car. Le sue ultime parole per lui saranno “Quando torni, dovremmo parlare”. E non c’è modo peggiore di iniziare una giornata.

Yusuke ama la propria auto, una Saab 900 rossa. Eppure, soffre di glaucoma da un occhio, e dovrebbe evitare di guidarla. Indugia ore e ore in più alla sua guida, quella sera, prima di tornare a casa. Prima di trovare Oto morta di emorragia cerebrale. Incapace di elaborare il lutto, Yusuke avrà un breakdown mentale durante l’interpretazione di Vanya in Zio Vanya di Cechov, costringendolo a porre uno iato alla sua carriera attoriale.

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Due anni dopo, Yusuke è scelto come direttore artistico di una residency ad Hiroshima, proprio per Zio Vanya: Yusuke, dunque, sceglie un cast misto per i vari ruoli del dramma, compresi attori non in grado di parlare giapponese – un’attrice taiwanese, un cileno, un’attrice muta che si esprime con la lingua dei segni coreana – e sceglie un ex collaboratore di Oto per il ruolo di Vanya, il bel Koji (Masaki Okada), che ebbe la propria carriera rovinata per un non specificato scandalo.

Nel corpus di nuove persone che Yusuke incontra, però, spicca la figura esile e minuta della sua autista – dato che la compagnia teatrale gli impedisce di guidare la propria auto –, Toko (Masaki Okada). Con lei si creerà un rapporto intimo e speciale, che porterà Yusuke, finalmente, ad elaborare il lutto.

I diversi piani di lettura di una storia apparentemente semplice

Drive my Car è un film difficilissimo. Lo è in svariati sensi: è difficile da seguire, in quanto rispecchia fedelmente, traslato in linguaggio cinematografico, quello surreale e magico di Murakami Haruki; situazioni comuni e quotidiane vengono caricate di sensazione di straniamento, di leggero drift da una realtà preconcetta e data per scontata. Così una notte di sesso, un Yusuke silenzioso e atono che viene posseduto da una donna-piovra che si agita sopra di lui, e come una sirena narra inquietanti storie, è un’esperienza extracorporea e deviante. Un ragazzo, Toji, forse viziato e instabile, diviene un assassino, ammettendolo poi candidamente. Come per minuscola luna verde in 1q84, scene di vita comune divengono parte di un universo fatto di molteplici realtà parallele al cui centro c’è Yusuke, in perenne stallo al centro del ciclone, incapace di andare avanti oltre il proprio dolore. I personaggi di Drive My Car si muovono fra l’assurdo e il reale, come nel teatro: sono maschere la cui finzione collima con la loro realtà, essendo attori; e l’unica in cui tale dicotomia sembra essere risolta è la muta Lee Yo-Na (Park Yoo-Rim), che interpreta la dolce Sonya nel dramma di Cechov, e che, coi suoi movimenti delicati come la danza di un cigno, si muove eterea fra la follia che circonda la messa in scena dell’opera.

Ad una prima visione, Drive my Car potrebbe non apparire un film romantico – vi rimandiamo qui, infatti, per una lista sui migliori film di San Valentino secondo Express VPNma in realtà esso esplora le molteplici dimensioni dell’amore: tutte simili, se non per piccoli particolari. L’ossessione, quella del Vanya di Cechov interpretato dal tormentato Koji, per Oto, per Yelena, impossibile da realizzare; l’amore calmo e tranquillo, come un lago di montagna, di Lee per il marito; e, infine, l’amore, fatto di false scatole cinesi che è stato quello condiviso da Yusuke e Oto. Di nuovo, la follia di Koji, col quale, Yusuke si trova sul malgrado legato tramite Oto.

E c’è lì, la giovane Toko, a guardarli dall’alto. Con la sua tragedia personale, col suo lutto non elaborato. Lei guida, ed ascolta le cassette in cui Oto narra le battute di Zio Vanya che Yusuke usa per memorizzare; lei, spirito pratico e rasoio di Occam. C’era qualcosa di buio in Oto, dice Yusuke. Mi ha sempre amato, ma c’era qualcosa di irraggiungibile, in lei, per me. E se fosse semplicemente stata così? Se non ci fosse stato nulla di nascosto e marcio, dentro di lei, ma semplicemente un’attitudine diversa dalla tua?, risponde Toko di fronte alle terribili domande colme di rimorso di Yusuke.

Se smettessimo di idealizzare l’altro, e ci concentrassimo semplicemente sulla sua persona? Su ciò che essa è, nella sua totalità? Anche dopo la sua morte? Se abbracciassimo quel dolore, semplicemente, per ciò che è?

Dunque, Drive my Car, è un’analisi profonda e ricca dell’elaborazione del lutto, ma, soprattutto, del senso di colpa, macigno che i sopravvissuti si portano dietro. Del peso di una casa crollata e una donna morta sotto di esso; di chilometri macinati senza motivo per fuggire da una conversazione potenzialmente pericolosa. Il ruolo di Toko è quello di ridurre la distorsione presente in Yusuke Kafuku, il cui cognome si scrive con i kanji di “casa” e “buona fortuna”: la distorsione metaforica, la romanticizzazione estrema, dell’artista, che carica ogni più piccolo elemento con significati reconditi e misteriosi; che trova sacro poter guidare la propria auto e che segue i propri, magici, rituali. Quello di Yusuke è insegnare, di nuovo, a Toko, a sognare e ad immaginare una vita interiore ed esteriore che non sia solo praticità, ma affetto, calore – potente, è, a tal proposito, la scena finale che la ritrae. Uno dei momenti più liricamente intelligenti della pellicola è il primo, vero, momento di connessione fra Yusuke e Toko: durante una cena, lui le riserva infinite parole di lode per la propria guida, dolce, delicata.

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È Sonya – la muta Lee – che pronuncia le dolci parole che chiudono Zio Vanya, che sono dirette più al tragico Yusuke che all’ascoltatore; lo abbraccia, mentre danza il suo silenzioso discorso; lo accarezza. Lo conforta.

Drive my Car è un film visivamente sontuoso nel suo esser minimalista: la colonna sonora, dai forti rimandi alla musica tradizionale giapponese, di Eiko Ishibashi, è potente elemento di rinforzo; le riprese sono spesso scattanti, nervose, come l’animo dei protagonisti. Come la tortura interiore che il rimorso causa. Il linguaggio del film è quanto di meno teatrale si possa immaginare, al contrario del teatro di cui tratta: è asciutto, i suoi personaggi parlano solo quando necessario, e con l’inflessione emotiva minima concessa. Come un occidentale, forse, immagina un giapponese. Yusuke stesso insiste perché i suoi attori non vadano mai in overacting. La spezzettatura della regia è anche sintomo più profondo di come Hamaguchi stesso, anche sceneggiatore, abbia interiorizzato la poetica di Murakami: siamo tutti delle monadi, degli elettroni su orbitali p ortogonali che non posso e non devono intersecarsi, ma, ogni tanto, l’impossibile avviene. E due anime si toccano.

Giulia Della Pelle
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