A Natale è iniziata ufficialmente la collaborazione tra Shondaland e Netflix. Il gigante dello streaming ha lanciato la serie in costume Bridgerton, un racconto che si fa pregio per l’opulente scenografia, i costumi artigianali, i colori sgargianti e una fotografia magnetica.
Shonda Rhimes è tornata in pista, e questa volta in modo del tutto diverso da come ci aveva abituati in questi anni. Bridgerton è un adattamento dei romanzi di Julia Quinn, un lavoro creato dallo showrunner Chris Van Dusen e prodotto da Shondaland (Le regole del delitto perfetto e Grey’s Anatomy). La serie tv viaggia a metà strada tra Gossip Girl e Orgoglio e Pregiudizio ed è fondamentalmente una botta-e-risposta tra donne e uomini nella Regency London. Negli otto episodi c’è una manifesta impronta multiculturale e presenta colpi di scena femministi.
In Bridgerton veniamo catapultati nell’Era Georgiana, un’epoca che ha posto le basi della società inglese contemporanea.
Ci troviano in un periodo di grande fermento culturale e di una vera e propria rivoluzione sociale. L’ascesa della borghesia ha portato al diffondersi di nuove attività e passatempi: dal rituale del bere il tè alla consuetudine di prendere il caffè con amici; sono state fondate le prime riviste di moda e di arredamento d’interni. Inoltre l’aumento del reddito disponibile e l’arrivo di un’infinità di beni e oggetti dall’estero ha portato a un boom degli acquisti. La scrittrice Jane Austen, durante un viaggio a Londra nel 1811, scrisse alla sorella: «Sto diventando molto stravagante e spendendo tutti i miei soldi».
Ed è in questo contesto che le vicende di una delle famiglie più importanti dell’alta società londinese si fanno protagoniste. Ci troviamo nel 1813, nell’ultima fase dell’Era Georgiana, e i Bridgerton fanno il loro ingresso sulla scena. Ci rendiamo conto immediatamente che è una serie molto più etnicamente diversificata di quanto la storia effettivamente ci permetta di comprendere. Vediamo la regina Charlotte (Golda Rosheuvel) con la pelle nera. La donna è considerata da molti studiosi “la prima regina mulatta della storia”. Il matrimonio con re Giorgio III ha permesso l’inclusione di altre etnie, oltre ai bianchi, nella privilegiata società britannica.
Ma poche famiglie, di qualsiasi estrazione etnica, possono competere con i potenti e prestigiosi Bridgerton, la cui figlia maggiore Daphne (Phoebe Dynevor) è pronta a fare il suo debutto in società ed entrare nel famigerato “mercato dei matrimoni” nell’upper class londinese dell’epoca. La ragazza, determinata auna diventate una brava moglie e madre premurosa, ha tutto ciò che serve per trovare marito: è delicata, carina, snella, mediamente intelligente, gentile e soprattutto vergine. Grazie a queste preziose qualità, la famiglia nutre grandi speranze su di lei.
Contenti del lodevole giudizio che la regina ha riservato a Daphne, sono convinti che la ragazza farà faville durante l’imminente stagione di balli, feste, cene, tè e altri eventi mondani che consentono a giovani uomini e donne di ballare e conoscersi, e ai loro genitori di elaborare piani dettagliati per le nozze. Sebbene la regina Charlotte descriva Daphne come “impeccabile” al suo debutto, la sorella minore Eloise (Claudia Jessie) sottolinea come le altre duecento giovani donne che si sono presentate alla società ora hanno un “avversario comune”. Ognuna di loro spera in un passo falso di Daphne per vederla fuori dai giochi.
La storia diventa immediatamente frizzante con l’arrivo della misteriosa Marina Thompson (Ruby Barker), una lontana cugina della famiglia “insipida e priva di tatto” Featherington, nemica e invidiosa dei Bridgerton. La ragazza, che attira fin dall’inzio l’attenzione su di sé, conserva uno scottante segreto e farà di tutto per proteggerlo. Nel frattempo, ad un ballo regale, Daphne inciampa – letteralmente – nello scapolo d’oro Simon, il Duca di Hastings (Regé-Jean Page). L’uomo più richiesto dalle giovani donne e dalle loro madri.
Quando Daphne si rende conto che suo fratello maggiore Anthony (Jonathan Bailey), ora visconte della casa dopo la morte del padre, è iperprotettivo e quindi temuto dai corteggiatori, architetterà un piano con Simon, completamente disinteressato al matrimonio e intento ad allontanare l’interesse su di lui delle madri invadenti che lo vogliono come marito per le loro loro figlie. E allora tra i due nasce un corteggiamento finto: in questo modo l’indisponibilità di Daphne rinnoverà l’interesse dei pretendenti maschili, mentre l’impegno di Simon dissuaderà l’interesse femminile.
Intriganti – e certamente tra i migliori – i personaggi di Penelope (Nicola Coughlan), la figlia intelligente dei Featherington, e Lady Danbury (Adjoa Andohcome), una figura materna e centrale per Simon. Decadenti invece le storie degli altri fratelli Bridgerton, dove la liaison d’amore di Colin (Luke Newton) nasce in modo piatto e continua peggio; stessa cosa riguarda il terzo fratello Benedict (Luke Thompson) che non si capisce se sia più interessato a dipingere o a celare la sua bisessualità. Anche Anthony appare esanime, dove i suoi doveri e la sua rigidità non gli consentono di vivere il suo amore con Siena (Sabrina Barlett). Per scoprire qualcosa in più su di loro aspettiamo le altre stagioni.
Le vicende vengono ulteriormente complicate dall’entrata in scena della misteriosa Lady Whistledown, che funge da narratrice della serie – doppiata da Julie Andrews – ed è autrice del foglio scandalistico della upper class, che comincia a mettere in cattiva luce la reputazione di Daphne. Lady Whistledown è un’influencer dell’Ottocento, le sue parole sono strumenti per diffondere giudizi, il suo foglio quotidiano è una sorta di blog in cui crea storytelling e rivela i segreti dell’alta società londinese.
L’intenzione di Bridgerton è quella di creare un mondo in cui il romanticismo, il sesso, l’odio, l’amore e la paura convivono tutti insieme, un luogo intriso di familiarità che riesce comunque a essere una via di fuga.
Il livello estetico è vertiginoso
I costumi sono maestosi, la scenografia imponente, la fotografia superba. Ogni vestito, accessorio e corredo ingioiellato dei costumi è fatto a mano. La costumista Ellen Mirojnick ha impiegato centinaia di artigiani per creare gli abiti tradizionali dell’epoca, creando un risultato sorprendente. Lo stesso tipo di lavoro couture è stato fatto dallo scenografo Will Hughes-Jones, sia i mobili che i tappeti di ogni scena sono fatti a mano per adattarsi alle ampie stanze.
Tutti questi tecnicismi amplificano il mondo dei privilegi della società inglese dell’Ottocento: personaggi che abitano in estese tenute e giardini opulenti, indossano abiti stravaganti di raso, tulle e velluto, e danzano sulle musiche moderne di Ariana Grande e Billie Eilish deliziosamente eseguite e riarrangiate appositamente dal Vitamin String Quartet.
Spirito femminista e temi multiculturali
In Bridgerton si percepisce la voglia dell’emancipazione femminile più contemporanea, a partire dalla narrazione. Un dramma in costume pieno di personaggi complessi e stratificati, dove le donne sono formose e magre, passionali e innocenti, cupe e allegre, intelligenti e incapaci, potenti ed impotenti. Partecipano ad un club per sole donne dove parlano, bevono e giocano a carte. Tutte loro camminano su una linea sottile tra l’innocenza e una mondanità poco informata che minaccia la loro felicità e l’ordine sociale che dovrebbero costituire e sostenere.
Bridgerton è anche una storia d’amore multiculturale che ci offre un mondo etnicamente diversificato e perfettamente coeso, impensabile nell’Era Georgiana. Una scelta che, apparentemente, non appare fatta per il politically correct, ma più per dare un approccio diverso alla narrazione. I creatori sembrano più interessati a rendere la Regency London più inclusiva che a giustificare le loro scelte per il color-blind casting.
Bidgerton non può considerarsi una serie con la “S” maiuscola, ma è un interessante period drama pop ucronico.
Manca l’accuratezza storica che si richiede spesso a questo tipo di produzioni in costume; i protagonisti sono orfani del tutto del loro lato psicologico, i loro sentimenti non vengono esaltati a dovere; le dinamiche tra signori e servitù sono assenti, infatti i membri del personale domestico sono devoti, leali e perfettamente felici di servire i nobili; la trama è banalotta e prevedibile, a tratti anche trash, tanto da essere qualcosa di trito e ritrito; il ritmo è incoerente in cui i primi episodi si trascinano e gli ultimi sono troppo affrettati.
Ma chi vuole combattere il politicamente corretto di certo non può farlo usando Bridgerton, una serie che di certo non vuole e non ambisce a narrare i fatti storici. Quindi trovo del tutto inutile e fuorviante la polemica per cui “i neri sono a palazzo”. Ci troviamo palesemente davanti un’ucronìa, dove si immagina un universo parallelo, in cui la schiavitù non esiste e i neri sono stati emancipati. Ergo: indignatevi e lottate per altro!
Per concludere, sicuramente Bridgerton è imperfetto e difettoso, è esente dalle dinamiche sociali, dalla ricostruzione storica, dalla complessità narrativa e dai dettagli propri della upper class londinese. Ma lo stile pop rende il period drama del tutto sui generis, grazie al suo aspetto frizzante, divertente ed esuberante, un misto godibile e piacevole per gli occhi.
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