Salinger non fu solo l’autore de Il giovane Holden. Fu anche un soldato, che conobbe il trauma della guerra e convisse coi suoi fantasmi per tutta la vita. Fu questo trauma, personale prima che storico, ad ispirare il racconto Per Esmé: con amore e squallore.
Un tributo ai veterani
“- Ho scritto a Loretta che hai avuto un collasso nervoso. […]
Per Esmé: con amore e squallore – Salinger
– Lo sai cosa dice? Dice che nessuno si becca un collasso nervoso solo per la guerra e simili. Dice che tu dovevi già essere un tipo instabile, prima ancora di fare il soldato.”
L’8 aprile del 1950, apparve per la prima volta sul The New Yorker il racconto Per Esmé: con amore e squallore, ad opera di J. D. Salinger. Il racconto ebbe un successo immediato e accese l’entusiasmo del pubblico nei confronti dell’autore e l’interesse per le sue opere future.
L’accalorata risposta che ebbe dai lettori è da ricercare nella natura stessa del racconto, che nacque come tributo a coloro che, come lui, avevano servito durante la Seconda Guerra Mondiale e avevano conosciuto il lato più crudele della guerra, non quello edulcorato e romanzato. Diede voce all’orrore, allo squallore, che avrebbe per sempre cambiato le vite di coloro che ne erano stati parte.
Lo stesso Salinger, che aveva partecipato allo sbarco in Normandia, non si liberò mai dello spettro di quella terribile esperienza e del terrore vissuto con i suoi commilitoni nella foresta di Hürtgen.
Tutta la sua opera è attraversata dall’eco di quei tormenti, nonché dal nervosismo caratteristico della sua indole. Ne è un buon esempio la raccolta Nove racconti (che uscì nel 1953 e incluse anche Per Esmé: con amore e squallore), permeata di un senso di perdita e di rottura con la realtà, ma anche di speranza e della potenza salvifica delle connessioni umane.
Per Esmé: con amore e squallore si colloca nel mezzo; amore e squallore convivono, in una storia che – grazie alla profonda autenticità di Salinger – permise ai veterani di riconoscersi nella solitudine dei suoi personaggi, ma con una promessa di speranza.
Il racconto
A narrare la storia è il sergente, il protagonista senza nome del racconto. Egli riceve l’invito ad un matrimonio a cui non può partecipare; tuttavia, butta giù qualche riga sulla sposa.
“Se i miei ricordi dovessero suscitare nello sposo, che non conosco, qualche momento di perplessità, tanto di guadagnato. Qui non si vuol compiacere a nessuno. Lo scopo è se mai di edificare, di istruire”.
Per Esmé: con amore e squallore – Salinger
In una lettera inviata nel 1945 alla rivista Esquire, Salinger affermò: “Finora i romanzi su questa guerra hanno mostrato fin troppo la forza, la maturità e il talento voluti dai critici, e troppo poco le imperfezioni che penzolano e fuoriescono dalle menti migliori. Gli uomini che hanno preso parte a questa guerra si meritano una sorta di tremante melodia, resa senza alcun imbarazzo o rammarico. Attendo con ansia un libro del genere.”1
Per Esmé: con amore e squallore nacque proprio dal desiderio di omaggiare i veterani, di onorarli con una narrazione autentica. Salinger rifiutò, dunque, la retorica patriottica e l’uniformarsi a un sentimento che, cinque anni dopo la fine del conflitto, stava trasformando la memoria collettiva e aveva ammantato la guerra di un alone di gloria e romanticismo. Fu fondamentale, in questo contesto, “istruire”, dare spazio a un malessere che faticava ad emergere.
Il valore dell’autenticità
“Nell’aprile del 1944 facevo parte di un gruppo di circa sessanta militari americani che seguivano un corso di addestramento piuttosto specializzato in vista dell’Invasione. Il corso era diretto dal servizio segreto inglese e si svolgeva nel Devon, in Inghilterra. […] I fatti miei consistevano di solito, nei giorni sereni, in passeggiate panoramiche tra le bellezze della campagna.”
Per Esmé: con amore e squallore – Salinger
Come il sergente, Salinger fu di stanza nel Devon, in Inghilterra, in attesa dello sbarco in Normandia. Seguì anch’egli un corso di specializzazione come agente dei servizi segreti e aveva la stessa propensione alla solitudine e alle passeggiate. In questa prima parte del racconto, sono molti i punti di contatto tra l’autore e il personaggio da lui creato, ma questo non andò a sfavore dell’immedesimazione, se mai il riconoscimento di un’esperienza reale aggiunse spessore.
Parole vuote
Durante un giro in città, in un sabato piovoso, l’attenzione del sergente viene attirata da un’affissione sulla porta di una chiesa. Scopre così che, in quel momento, sono in corso le prove del coro dei bambini e decide di entrare. È interessante la descrizione che egli fa della scena a cui assiste: l’insegnante sta richiamando i coristi, incitandoli ad aprire per bene la bocca quando cantano.
“Le rispose uno sguardo fisso, opaco. Lei proseguì dicendo che tutti i suoi bambini dovevano assorbire il senso delle parole mentre cantavano, non solo ripeterle come dei piccoli pappagalli.
Per Esmé: con amore e squallore – Salinger
Poi soffiò il la nel suo fischietto, e i bambini, come tanti minuscoli sollevatori di pesi, si portarono sotto il naso ciascuno il suo innario.”
Come in ogni buon racconto, nulla è lasciato al caso. L’incitamento ad aprire la bocca, l’enfasi posta sul senso delle parole e infine il fischietto compongono un quadro non troppo dissimile da uno spaccato di vita militare.
L’incomunicabilità
Terminate le prove, la scena si sposta in una sala da tè:
“finalmente trovai un paio di lettere ammuffite da rileggere, una di mia moglie, che mi diceva quanto fosse peggiorato il servizio da Schrafft’s, nell’Ottantottesima Strada, e una di mia suocera, che mi chiedeva per favore di mandarle qualche matassa di cashmere alla prima occasione che avessi avuto di uscire dal “campo”.”
Per Esmé: con amore e squallore – Salinger
La solitudine e l’incomunicabilità sono due elementi ricorrenti nella narrativa di Salinger. In questo particolare frangente, sono strettamente legati all’ignoranza di chi non vive la guerra sul campo e non può rendersi perfettamente conto di cosa questo voglia dire in termini emotivi. Non è un caso se, nell’ultima parte del romanzo, assistiamo ad una progressiva trascuratezza del sergente nei confronti della sua posta.
I personaggi di Salinger sono tipicamente incapaci di comunicare e spesso la loro gestualità vale più delle loro parole: come accade con Franny Glass (da Franny e Zooey), ad esempio, la cui gestualità da fumatrice nervosa è rivelatrice dei suoi movimenti interiori. Oppure Seymour Glass (e qui ci sarebbe da aprire un interessante discorso sulla famiglia Glass), protagonista di Un giorno ideale per i pescibanana; anche lui è un reduce di guerra e – similmente al caso del sergente – anche sua moglie non avrà i mezzi per comprendere la grave condizione del marito. La differenza tra Seymour e il sergente sta nell’epilogo riservato alla loro condizione: non ci sarà alcun elemento salvifico per il giovane Glass.
I dettagli, nei racconti di Salinger, sono sempre veicolo dei significati più nascosti e questo vale anche per Esmé.
Esmé
Esmé è una ragazzina di circa tredici anni, che il sergente aveva già notato in chiesa. Il suo canto era “il più limpido, il più dolce, il più sicuro” e trainava il resto del coro di bambini. La ragazzina, con fratello piccolo e governante al seguito, fa il suo ingresso nella sala da tè e l’immagine che ci viene dipinta è quella di una giovane con un portamento e una dignità che la pongono al di sopra dei ragazzini della sua età.
Accorgendosi della solitudine del sergente, la ragazza attacca bottone con lui, innescando un dialogo in cui saranno proprio i dettagli a svelare di Esmé ciò che lei nasconde dietro un atteggiamento sospettosamente maturo: ha le unghie rosicchiate (che nasconde immediatamente), scandisce la parola “s-l-a-i-n”2 (parlando di suo padre) lettera per lettera, in modo da indebolirne il senso alle orecchie del fratellino; parla con ammirevole distacco dei suoi genitori deceduti, ma indossa l’orologio del padre, troppo grande per lei.
Esmé ha conosciuto lo squallore e assume il compito ingrato di essere forte per sé e per il fratellino. Quando scopre che il sergente è uno scrittore, gli chiede di scrivere un racconto per lei: “lo scriva molto squallido e commovente”.
Lo squallore
Conclusa la parentesi con Esmé, si entra nell’ultima parte del racconto. Il narratore passa dalla prima alla terza persona; una forma di distacco, che permette al sergente di distanziarsi dal suo trauma e a Salinger di far sì che il sergente X, come verrà chiamato da ora in poi, sia il portavoce di tutti i veterani.
Settimane dopo la Vittoria, il sergente X è solo, nella semioscurità della sua stanza. Cerca di leggere un romanzo, ma non ci riesce. In seguito ad un collasso nervoso, le sue facoltà sono compromesse: rilegge una frase più e più volte, finché non rinuncia. Le sue dita tremano e le gengive sanguinano, ma lui fuma spasmodicamente.
Sul tavolo giace una pila di lettere accumulate di cui non si interessa più e nel momento in cui decide di aprire quella del suo fratello maggiore, assistiamo ad un nuovo momento di superficialità, poiché egli chiede in regalo per i suoi bambini delle baionette o delle svastiche.
A nulla varrà la visita del caporale Clay, il suo compagno di jeep, se non a farlo sentire più solo attraverso le parole della sua fidanzata, per cui “nessuno si becca un collasso nervoso solo per la guerra”.
Clay è un soldato entusiasta, che non comprende il malessere del sergente X e che ha tutti i connotati caricaturali del soldato americano belloccio e scanzonato. Tra i suoi aneddoti preferiti c’è quello in cui spara ad un gattino senza alcun motivo; ricordo nauseante per X, ma evidentemente goliardico per lui.
Sembra accordarsi ad un’affermazione di ingenua mondanità fatta da Esmé: “quasi tutti gli americani che ho visto si comportano come animali.”; eppure non traspare una condanna nei suoi confronti. Il caporale Clay è solo un’altra faccia dello squallore, del distacco dalle emozioni.
Prima di andarsene, Clay afferma, ignaro del suono tristemente ironico delle sue parole, che secondo la madre, le sue lettere “sono diventate molto più intelligenti”, da quando lavora in coppia con X. Un ultimo sberleffo della sorte, considerando che il sergente ora riesce a stento a leggere.
L’amore
Tra la posta ignorata, però, un pacchetto verde salta all’occhio: è una lettera di Esmé, che aveva promesso di scrivergli. Il pacchetto, inoltre, contiene l’orologio del padre, che per lei aveva un inquantificabile valore affettivo.
La spontaneità della lettera, la dolcezza delle poche, impacciate parole aggiunte da Charles: “CIAO CIAO CIAO BACI E SALUTI CHALES” e la generosità pura del regalo di Esmé, saranno la salvezza del sergente.
È questo il regalo di Salinger ai suoi compagni: la promessa che attraverso le connessioni umane la rinascita è possibile.
“Prendi un uomo che abbia veramente sonno, Esmé, e sta’ sicura che ha sempre almeno una probabilità di ridiventare un uomo con tutte le sue fac… con tutte le sue f-a-c-o-l-t-à intatte.”
di Lucrezia Cappucci
1 Traduzione tratta dal saggio Salinger. La vera storia di un genio, di Kenneth Slawenski (J. D. Salinger: A Life, 2012), edito da Newton Compton.
2 “ucciso”, che nella traduzione italiana di Carlo Fruttero viene riportato normalmente.
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