Abbiamo incontrato i registi di Re Granchio (leggi qui la recensione), de Il Solengo e di Belva Nera, Matteo Zoppis e Alessio Rigo De Righi, per un’interessante chiacchierata sulla loro ultima produzione artistica. Fra letteratura sudamericana e provincia romana.
Ciao entrambi! Piacere di conoscervi.
MZ: Per noi! È un periodo intenso di presentazioni, siamo un po’ persi per l’Italia.
Ho un sacco di domande sul vostro ultimo film, Re Granchio. Raccontatemi innanzitutto chi sono Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi.
ARR: Io sono nato negli Stati Uniti. Sono però cresciuto a Roma, e con Matteo siamo amici d’infanzia. Ho studiato cinema a New York e letteratura a Roma. Ho lavorato come assistente in Italia e in Argentina, dove mi sono trasferito definitivamente da dieci anni. La coproduzione del film, argentina, è venuta naturalmente tramite mia moglie.
MZ: Mia mamma invece è americana, e mio padre italiano. Sono cresciuto in Italia ma per lunghi periodi in USA, dove ho studiato (a NY), e tramite vari cambi di carriera – legge, letteratura, viaggi all’estero (Francia, Germania, USA) – alla fine sono tornato in patria.
Da dove deriva– dato che è presente anche ne Il Solengo – questa passione per la provincia romana? C’è qualcosa che vi lega in particolare a questo ambiente? Voglio dire, Vejano è un paesino minuscolo…
MZ: per la Tuscia viterbese? Parte tutto da alcuni racconti molto folkloristici che abbiamo ascoltato in quella casina di caccia che si vede all’inizio di Re Granchio. Si parlava anche di una pantera nera negli anni ’80, Ercolino – il proprietario – sosteneva di averne vista una! Il secondo film, invece, è nato durante la pausa pranzo del primo. Si diceva di un uomo che ha vissuto sessant’anni in una grotta – ed è nato Il Solengo. Abbiamo re-inscenato ciò che abbiamo ascoltato, romanzato, e un po’ mistificato, devo dire. La terza storia, quella di Re Granchio, viene ancora da dentro la casina: si parlava di Luciano – e la storia diventava estremamente confusa (ride) –, un malfattore che infine è stato esiliato in Patagonia. Siamo andati io e Alessio in Argentina a cercare tracce di Luciano.
Quindi c’è un fondo di verità su Luciano, finito in culo al mondo…
ARR: Sì, anche se devo ammettere che le storie si confondono.
MZ: è una memoria collettiva. Sono quasi dei racconti popolari.
Da Vejano alla Patagonia. Ma dove avete scovato quel laghetto coi granchi?
ARR: è una laguna chiamata “Laguna Turchesa” che si trova vicino ad Ushuaia, ma molto difficile da raggiungere. Si deve camminare un’ora e mezza in salita su terreno scosceso. Ci eravamo immaginati di raggiungere quel luogo in elicottero, quell’effetto mosso e realistico che dona, ha piu’ respiro rispetto a quello di un drone. Abbiamo convinto i produttori: sia per portare le troupe e l’equipaggiamento. Una crew ridotta è salita a piedi, mentre il povero Gabriele (il protagonista) si è effettivamente arrampicato.
MZ: Devo dire che è stata una contrattazione. Gli abbiamo detto che assolutamente senza elicottero non si poteva fare (ride). Quel posto è ghiacciato per la maggior parte dell’anno, abbiamo girato nell’estate. Facevano tre gradi quando Gabriele si è immerso nell’acqua…
Dal punto di vista concettuale, in fase di scrittura della sceneggiatura, che connotazione avete dato al collegamento western vejanese/wester patagonia/monili etrusci/monili pirateschi?
ARR: dal punto di vista filosofico non lo so. Dal punto di vista di costruzione narrativa, abbiamo avuto l’idea di mantenere un oggetto totemico (quello che Luciano trova all’inizio) e che fosse elemento d’ingaggio della storia dall’altra parte del mondo – che fosse amore, redenzione, storia di per sé, ricerca del proprio io. È sempre stato presente fin da quando abbiamo deciso di strutturale il film.
MZ: Era un oggetto che si trasformava, all’inizio. Volevamo simboleggiasse la mistificazione del racconto che passa da molteplici bocche, per molteplici mani.
ARR: abbiamo notato che ci fossero similitudini fra oggetti inca ed etruschi. Abbiamo scelto quel’oggetto a metà fra un ciondolo e un coltello.
MZ: i tumi, gli oggetti sacrificali inca, erano formati da varie parti, che rappresenta la somma del nostro film: acqua, sole, montagne. L’oltretomba è anche simboleggiato da tali oggetti, provenienti dalle necropoli delle due civiltà, come del resto è presente anche nel film (SPOILER): Luciano muore due volte, ma non muore davvero.
Col reclutamento degli attori, soprattutto quelli della casina di caccia, come vi siete mossi? Come li avete scovati?
ARR: Li abbiamo reclutati ed obbligati, dal bar centrale di Vejano. Loro non volevano assolutamente recitare – e adoravamo la cosa, pensavamo e pensiamo fossero le comparse migliori – e li abbiamo dovuti convincere. Inseguire. Pregare. Farci insultare. Li abbiamo scelti in paese, tranne Alexandra Lungu (già ne Le Meraviglie della Rohrwacher) e Gabriele (sua prima esperienza, è un artista romano), e sono tutti vejanesi.
Beh, ti assicuro che il dialetto è esattamente quello.
ARR: abbiamo provato moltissimo, per mesi. Abbiamo aggiustato i personaggi a loro.
MZ: Letteralmente riscritta la sceneggiatura, per i galoppini, Severino…
Partendo da Il Solengo, arrivando a Re Granchio…
ARR: da che abbiamo sentito la storia di Luciano, sono passati sei anni circa.
MZ: Un film quinquennale. È stato difficile da far produrre perché le due location sono distantissime, e non sarebbe stato possibile se non avessimo avuto collaboratori come la moglie di Alessio ed Ezekiel Borovinskij (Wanka, ndR), l’aggiunta infine dei francesi nella persona di Thomas Ordonneau, e l’assistenza di Tommaso Bertani (Ring film, NdR) che ha creduto fortissimamente nel progetto.
ARR: siamo stati egregiamente accompagnati durante tutto il percorso.
MZ: La pandemia poi non ha aiutato minimamente, stavamo per iniziare le riprese… Abbiamo incastrato le riprese fra prima e seconda ondata, in Italia a settembre 2020 e in Argentina a Febbraio 2021.
E la letteratura? Quanta ce n’è in Re Granchio?
MZ: moltissima. Una parte di sceneggiatura veniva chiamata da noi la bolañata, ispirata da Roberto Bolaño… un momento in cui perdevamo il filo e sviavamo dal tema principale.
MZ: c’è tanto realismo magico. Borges, Bolano stesso. Molti romanzi di Conrad, Stevenson, e varie storie d’avventura. I Canti Orfici di Dino Campana. La biografia di Dino Campana ci ha ispirato per il personaggio di Luciano, il concetto di viaggio in America.
ARR: c’è una teoria che dice che Dino Campana non fosse nemmeno mai uscito dall’Italia. C’è il seme del dubbio, e questo ci ha mosso per il collegamento alla leggenda di Luciano. Abbiamo fatto un po’ di ricerca storica, in Argentina, ed un omonimo, o lui stesso, effettivamente giunse a Buenos Aires a fine Ottocento. Direttamente da Vejano.
Dal punto di vista di linguaggio cinematografico, quali sono i vostri maggiori maestri, per la realizzazione di Re Granchio?
ARR: tanto western anni ’70. lavoriamo scambiandoci continuamente citazioni ed immagini.
MZ: Abbiamo molte idee condivise e lavoriamo in un perpetuo senso di conflitto. Non siamo d’accordo neppure del tutto sul finale di Re Granchio. La divergenza crea delle sovrapposizioni interessanti. Non c’è una spiegazione univoca: questo avviene perché siamo due e siamo in conflitto.
Potrebbe esser una via per la redenzione, o Luciano, semplicemente, potrebbe non avere un motivo specifico. La curiosità può bastare, così come l’avidità.
MZ: Parlavamo spesso del passare dall’altro lato, di Luciano. Divenire un trafficante di oggetti sacri di una civiltà scomparsa.
Il film verrà distribuito come The Tale of The King Crab, come titolo internazionale. È una citazione da La Leggenda del Re Pescatore di Olmi?
ARR: In realtà no. Ci piaceva come suonava (ride). Negli Stati Uniti è così, in Francia si usa “leggenda”, e idem in spagnolo. Cangrejo.
Ma quel granchio, il granchio protagonista… dove ve lo siete procurato?
ARR: negli acquari abbiamo scommesso sul granchio che si muoveva di piu’.
MZ: Possiamo dire che sia stato un incubo produttivo. Cioè sperare che il crostaceo camminasse sulla montagna…
ARR: immagina un team di trenta persone ferme a filmare un granchio…
Beh, il concetto di attesa è ottimamente resa. Il granchio fa movimenti casuali, va avanti, indietro, in un’allegoria della vita.
MZ: lo abbiamo riportato nel film, dato che eravamo noi ad attendere il prossimo movimento del granchio…
I costumi di Re Granchio sono molti belli. Opera di Andrea Cavalletto, costumista di Martin Eden. Prevedete di fare altri film in costume, non ai giorni nostri, in aeree rurali?
ARR: Perché no? È stata una collaborazione molto molto prolifica. Abbiamo trovato la giusta quadratura. Avevamo deciso dall’inizio di non riprodurre una specifica epoca storica ma un mondo fiabesco. E chiaramente i western, ma in questo caso un western di mare e di Tuscia.
MZ: Vejano è un paese di frontiera. Tutti i nostri film hanno questo sottotesto: la frontiera.
Siete soddisfatti del successo di Re Granchio? In Italia se ne parla un gran bene. La distribuzione come procede?
ARR: Sembra bene.
MR: le sale aumentano, le settimane aumentano. Tutti segnali positivissimi che ci fanno ben sperare. A Cannes è andato benissimo, siamo rimasti positivamente stupiti. Anche a Torino ha avuto vita prolifica.
Vi ha intaccato e raggiunto in qualche modo la polemica sul dialetto romano che ha colpito Strappare Lungo i Bordi?
ARR: sinceramente no. E menomale.
Farete altri film con Gabriele Silli?
MZ: Speriamo. Si è dimostrato un attore validissimo. Immaginavamo esattamente lui come Luciano. Inoltre, è un alieno del paese: è la nostra voce. È al centro di due mondi diversi, un borghese bloccato in questo universo di timori, paure, immobilità. Un po’ come noi tutti.
C’è del millennials, dunque. Generazionale, in Re Granchio.
MZ: Ci siamo resi conto che i giovani hanno apprezzato questo film, forse proprio per questo motivo.
Grazie ragazzi, siete stati gentilissimi!
A te, a presto!
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