Severance è una serie originale Apple TV, rilasciata a partire da Marzo 2022, prodotta da Ben Stiller (nonchè regista), Adam Scott e Patricia Arquette.
Una donna, rossa di capelli, vestita d’un formale tailleur blu, si risveglia su di un tavolo da riunione. È in una sala riunioni, effettivamente: un’anonima, impersonale, sala riunioni. C’è un piccolo altoparlante dall’aria antiquata, che pigola il suo nome. Helly, Helly.
È così, terrificante, che inizia Severance – Scissione, in Italiano – recente serie firmata Apple Tv, scritta dall’esordiente Dan Erickson, che pare aver tratto ispirazione proprio dagli alienanti lavori d’ufficio svolti prima di riuscire a far sì che la sceneggiatura di Severance venisse notata da qualcuno – chiunque, purchè quella storia venga raccontata. Nel 2016 lo screenplay fu aggiunto alla famosa lista di BloodList delle migliori sceneggiature non prodotte – e, da lì, gli eventi accelerarono. Nel 2019 fu annunciato nientepopodimenochè Ben Stiller come regista e produttore, nonché un cast d’alto livello: Adam Scott, nel ruolo del protagonista Mark; John Turturro (è il suo anno d’oro: già in The Batman), Christopher Walken, Patricia Arquette – fra gli altri. Gradita sorpresa è poi l’interprete di Helly, il casus belli incarnato di Severance, la semmisconosciuta Britt Lower.
Avete mai desiderato poter dimenticare tutto ciò che vi succede sul luogo di lavoro? Quegli strani, sgradevoli colleghi, un cattivo caffè, la stanchezza perenne, la noia di un lavoro alienante – la sensazione di esser tornati all’asilo, per via di quelle strane, piccole, contorte, dinamiche, che si instaurano all’interno di un dipartimento: laddove, purtroppo, quel dipartimento, diviene l’intero universo. Tutto si riconduce ad esso: ciò che succede nel dipartimento purtroppo trasuda malefico, come pittura ad olio nera negli incubi del personaggio di Turturro, nella vita al di fuori di quell’ufficio.
Il dipartimento: una gravidanza plurigemellare
Il dipartimento di “Macro Data Refinement” è il luogo d’azione di Severance. I suoi dipendenti, infatti, hanno scelto di scindere completamente la propria vita privata da quella lavorativa: l’uno non sa che fa l’altro, per otto ore al giorno. Una persona completamente nuova: un anziano bambino che deve imparare, di nuovo, a vivere in società. Peccato che quella società sia composta da cinque persone. Più un certo numero di declinazioni del concetto di Uomo Nero – boogyeman.
Oltre ai dipendenti del Macrodata refinement – Mark, la neoarrivata Helly, Dylan (Zach Cherry), Irving (John Turturro) – orbitano i tre sorveglianti, talvolta sorridenti, talvolta abominevolmente orrendi: Milchick (Tramell Tillmann), che ha il ruolo di babysitter/intrattenitore/punitore all’occorrenza; il capo supremo (di cosa, poi?), Harmony Cobel (Patricia Arquette), ed infine il terrificante capo della sicurezza Doug (Michael Gumpsy).
La stravagante azienda per cui Mark, personaggio da cui vediamo il punto di riferimento, è la Lumon. Eppure, è attraverso gli occhi di Helly che vediamo, come nel mito della caverna di Platone, dischiudersi il ben poco stratificato mondo, con la sua archetipale e delirante mitologia, della Lumon. A metà fra la Bibbia Mormone e il Tempo del Sogno, la Lumon è fondata da Kier Eagan, attorno al quale viene sviluppato un vero e proprio culto della persona: nei dipinti commissionati al dipartimento di Optics and Design egli è raffigurato come un novello Gesù Cristo, che scaccerà il male, l’ignominia, l’inerzia, l’indolenza, l’ignavia, dalle scrivanie dei dipendenti LUmon e li guiderà verso la retta via; egli viene considerato l’autore del “Manuale del Buon Dipendente”, una sorta di libro dei Salmi che trasuda massime, in forma di sure coraniche, che risultano ridicole per un outie – il termine, piuttosto infantile e avvilente, che si usa, alla Lumon, per definire l’alter ego originario, che vive all’esterno – ma che sono capaci di colpire profondamente la mente vergine di un innie. Al contempo, ciò che avviene al di fuori, nel nostro mondo del 2022, è gradualmente svelato tramite Mark, che ha recentemente perso l amoglie di un incidente stradale – evento che l’ha traumatizzato al punto di voler dimenticare, almeno per otto ore al giorno, quel dolore – e che ha una sorella, Devon, incinta di nove mesi e sul punto di partorire, ed ha un ottimo rapporto con lo stravagante cognato: Ricken (Michael Chernus).
Alienazione e incompletezza: i semivuoti adulti bambini di Macrodata Refinement
Severance ama giocare su due piani: la realtà, quasi del tutto priva di stimoli – ma attenzione, non del tutto priva – e ciò che l’immaginazione umana può fare con essa. Le scenografie di Severance sono minimal, ma curate nei dettagli. Tutto ciò che può essere rimosso, è eliminato. Le etichette sul sapone, sull’asciugamani, sono rimosse – come fa notare Irving. Vi sono simboli, per il caffè. Le sedie non hanno brand. È permesso avere solo foto di gruppo – di dipartimento, di microcosmo, di gamberetti in una biosfera isolata – sulla scrivania. Ogni tipo di testo scritto, o che assomiglia ad esso, è vietato. È vietato introdurne dentro alla lumon, ed è vietato che escano. In una parola: demenzialità. Nell’accuratissimo lavoro di Design dello spazio da videogioco operato da Jeremy Hindle e ritratto da Ben Stiller, tutto è indirizzato per essere utilizzato da dei perfetti cretini. Non persone mentalmente disturbate: solo cretini. Cretini che non sono capaci di concepire qualcosa che vada al di là del proprio naso, non perché non abbiano le capacità, ma perché non vogliono. Hanno scelto la scissione, la severance: dunque, essi preferiscono l’oblio. Ogni dettaglio fantasioso è eliso, eliminato, oscurato. I corridoi sono lisci. La moquette attutisce i rumori prodotti dai tacchi di Helly. La carta da fotocopiatrice è soffice, impossibile tagliarsi con essa.
Sottostimolazione: il mondo di Severance è quasi del tutto privo di stimoli. Ma per la mente umana, e per Helly, in particolare, la stridente sottostimolazione sensoriale unita alla mancanza di conoscenza riguardo quel minuscolo mondo, scatena un’enorme curiosità. Laddove le scimmie di Odissea nello Spazio avevano il monolite, Helly ha i corridoi infiniti di quel piano degli edifici della Lumon, da esplorare come una novella Magellano.
D’altro canto, dal punto di vista concettuale, il lavoro svolto dai dipendenti della Macrodata Refinement è alienante. Ad essi nulla viene spiegato: non sanno cosa fanno, né quali dati stiano raffinando. Ecco, di nuovo, la mancanza di stimolazione gioca un ruolo grandioso: l’immaginazione viene risvegliata, sebbene su un piano distorto, che non può usufruire degli schemi archetipali che una persona completa, un outie, ha la capacità interiorizzare. Ecco che quei dati diventano l’intera galassia: numeri, numeri sbagliati, numeri spaventosi: numeri che terrorizzano. Sono quelli che vanno eliminati, numeri che a Kier non piacciono.
Dal punto di vista estetico, effettivamente l’unica stimolazione di natura “artistica” permessa è quella rappresentata dai quadri ad olio appesi nei corridoi, raffiguranti le grandi gesta di Kier in persona, salvatore della patria ed inventore della disciplina d’ufficio, ed, eventualmente, i terribili inferni e sottomondi che si realizzerebbero qualora si contravvenisse alle sacre regole dettate da Kier. Irving, animo sensibile, è suggestionato fortemente da tali quadri: essi riempiono il vuoto di un bambino che non ha potuto riempire il proprio animo di eventi, fenomeni, suggestioni. Ecco che Irving cresce, di fronte a quei quadri. Comprende l’adultità, e, comprenderà, poi, l’amore.
Il ventre materno e la nascita: il valore della memoria in Severance
Peculiare è la scelta da parte degli autori di introdurre il personaggio di Devon, sorella di Mark, come abbondantemente incinta. E di darle uno strambo marito, che elegge se stesso a novello Osho e maestro di vita, Ricken. Due persone molto amichevoli, che si circondano di altrettanto stravaganti amici. Antitesi di Mark, un solitario, che preferisce anche evitare la sua invadente vicina di casa, Ms. Selvig. Un Mark che nasce e torna nell’utero ogni volta che va a lavoro, che passa per quel canale – non vaginale – che è l’ascensore. Come un neonato egli non ha memoria: non sa nulla della crescita personale del suo outie, dei suoi lutti, della sua sofferenza, della sua dipendenza dall’alcol. Nulla impara, se non a un livello subconscio, via che non viene mai del tutto perseguita in Severance, e, devo dire, è un bene. Eppure il suo core centrale è sempre lo stesso: ride delle stesse battute, si adombra per gli stessi avvenimenti. Conserva la stessa gentilezza.
Gli infiniti corridoi della Lumon non sono, forse, circonvoluzioni cerebrali ancora inesplorate perché inaccessibili? Vuote, perché non riempite da eventi, da stimolazioni sensoriali? La Lumon non dispensa che poche note di musica calmante, poche gioie – festini a base di frutta e pappette, come se quegli adulti fossero dei neonati sdentati – e tutto ciò non basta a far sì che il bambino si realizzi in adulto. Non sei una persona, dice la outie di Helly alla sua innie di fronte alla richiesta d dimissioni. La innie di Helly non ha neppure la possibilità di divenire un adulto.
Dunque, i dipendenti del Macrodata Refinement – e di Optics & Design, più avanti nella serie – rimangono in un caldo e accogliente ventre materno, guadagnando soldi per la pensione, ma dimentichi dello scopo dell’essere umani: crescere, scoprire, curiosare ovunque. Espandersi, sia dentro di sé che nella realtà fenomenologica.
Il comparto tecnico: perché Severance è già fra le serie migliori degli anni ‘20
La regia di Ben Stiller è non sono ben calibrata agli eventi trattati, ma li dipinge come una spia. Uno scrutatore. Un’incarnazione ulteriore di Milchick che tutto sorveglia, tutto sa. Un grande occhio, un Grande Fratello per una società minuscola e schiavizzata. Sa essere horror, negli infiniti, labirintici corridoi, e sa essere comica, ancora, nei tragici siparietti delle feste di dipartimento. Sa rendere Patricia Arquette una regina rossa di Alice nel Paese delle Meraviglie, Petey (spoiler) il più triste, malconcio, dei Bianconigli, nel suo accappatoio preso in prestito e in quel telefono che null’altro è se non un orologio da taschino post-litteram. Si muove rapida durante le esplorazioni, furtiva nelle fuitine di Irving a O&D.
La fotografia di Jessica Lee Gagnè è, al contrario, coloratissima: i pochi, pochissimi colori disponibili nel ventre materno della Lumon sono messi in risalto, esasperati nei toni caldi, bollenti, e nei verdi delle piante finte nelle hall, dei dolcetti, dei biscottini, dei watermelon party.
Severance si rifà, dunque, esteticamente, più ad una sitcom che ad una serie tv ad alto budget a cui colossi quali Netflix ed Apple ci hanno abituato: è l’esasperazione della sitcom, in cui la scissione – la severance – fra il proprio io e quello inventato è totale. Possiede le piccole, meschine, dinamiche della sitcom, e le sue blande, ripetitive, soundtrack – eccellente è il lavoro in tal senso di Theodore Shapiro, che fa del sarcasmo la sua ispirazione principale, come già avvenuto in Idiocracy.
Qualora abbiate dubbi sulla vostra professione, sulle vostre scelte di vita, una visione degli otto episodi di Severance non potrà che esservi di estremo aiuto. Una serie tv che si configura già come un successo di critica, come altre serie simili, che partivano da fortissimi assunti – The Leftovers fra tutte – hanno testimoniato. Speriamo in molteplici stagioni.
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