La semplice, elegante bellezza del cinema europeo – il suo linguaggio universale, spesso raffinato, ma concreto, corporeo, verace – è, a volte, sconvolgente. Siamo così pochi, in Europa, rispetto al resto del mondo; eppure parliamo tante lingue diverse, e abbiamo tanti usi e costumi lievemente differenti – quanto basta per essere simili, ma anche quanto basta per essere diversi. L’Europa è stata fatta dopo la seconda guerra mondiale, politicamente: ma è l’arte che ne sospinge avanti il senso, gli intenti, il manifesto, la civiltà; culla, nido, e cimitero monumentale di ciò che la saggezza proveniente dall’esser antichi ha da offrire.
È fra antiche montagne che Le Otto Montagne ha visto la luce. Film tutto europeo, per l’appunto: Italia, Francia, e Belgio. Cast quasi tutto italiano, a partire dai due protagonisti, Alessandro Borghi e Luca Marinelli, i due attori-rivelazione della scuola romana degli anni ’20; registi belgi, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeesch, il primo già autore del pregevole Alabama Monroe del 2012.
Tratto dal romanzo omonimo di Paolo Cognetti, Le Otto Montagne si è aggiudicato il Premio della Giuria a Cannes 2022.
Siamo in Val D’Aosta, anni ’80. Pietro, interpretato nella sua forma infantile da Lupo Barbiero, è figlio unico di un ingegnere, il workaholic Giovanni (Filippo Timi), e di una casalinga, Francesca (Elena Lietti). Durante un’estate, la famiglia affitta una casa in montagna, in un paese minuscolo che conta meno di venti abitanti, ed un solo bambino: Bruno Guglielmina (Cristiano Sassella). Pietro, bambino di città, e Bruno, pastorello montanaro, creeranno un’amicizia infinita ed indissolubile nel corso degli anni che seguiranno: il padre Giovanni adotterà Bruno, figlio d’un alcolizzato che gli ha impedito di studiare nonostante la sua passione per la lettura, mentre Pietro, figliol prodigo, si ritroverà, a piu’ di trent’anni, a non avere una meta, una storia personale, uno scopo. Due figli, uno di sangue, e uno di montagna.
Le Otto Montagne è un film che si sviluppa lento, e si prende, nella sceneggiatura firmata proprio dai due registi, il giusto tempo per approfondire ogni cosa: dipinge con calma la dualità della persona-padre Giovanni, la desolata età adulta di Pietro, l’ostinata solitudine della vita di Bruno. Pennella lo sviluppo dei due giovani, la separazione di quindici anni – anni così futili e vuoti che ad essi sono dedicate solo un paio di scene – e la graduale scoperta, da parte di Pietro, del Bruno adulto. E del suo rapporto con il proprio padre, come egli abbia sostituito lui, figliol prodigo. Le Otto Montagne dedica tempo, poi, anche alla rivoluzione mentale di Pietro – il viaggio in Nepal, la scoperta di una nuova cultura, l’appropriarsi del proprio giusto cammino di vita, ossia la scrittura. Costruisce lentamente, pezzo per pezzo, nel silenzio quasi assordante della montagna valdostana e nella timida colonna sonora di Daniel Norgren, l’epopea di Pietro e Bruno.
La parte maestra del film è, ovviamente, incentrata sulla vita dei due protagonisti adulti, interpretati da Marinelli e Borghi. Una scelta strana, quella di far interpretare un piemontese e un valdostano da due romani: talvolta, soprattutto nel caso di Marinelli, con qualche scivolone di dizione. Borghi, al contrario, si mimetizza meravigliosamente tanto da sembrare un nativo. Nulla da eccepire sulla qualità della recitazione tout-court: si tratta di due professionisti eccelsi, capaci di esprimere sentimenti complessi ed impersonare pezzi di umanità reale – Pietro e Bruno risultano, infatti, a fine visione, due persone vere: quasi che lo spettatore avesse davvero fatto conoscenza di quei due uomini, del loro lavoro insieme alla baita, della loro amicizia e della loro mutua sofferenza. La capacità di Filippo Timi come quasi-caratterista, però, avrebbe meritato qualche minuto di screenplay in piu’: il personaggio di Giovanni, fulcro della storia, nucleo fumante dello spleen interiore di Pietro, è un interessantissimo topòs narrativo – la dualità della figura paterna, non solo archetipale ma anche umana.
Il cinema di Van Groeningen e Charlotte Vandermeesch si ispira non a grandi modelli antichi, quanto piu’ all’attuale scena èlite del cinema moderno: il rapporto in 4:3, atto a creare sia agorafobia che claustrofobia nello spettatore, richiama molto della tecnica di Eggers; i lunghi piani sequenza e la cura per la luce naturale sono debitori dei lavori di Inarritu. Le cinepresa è poco mobile, ma spia le attività sia dei giovani, che degli adulti. Li segue nei trekking di montagna, nelle disavventure sui crepacci, nel contatto coi nepalesi. La fotografia di Ruben Impens è quasi fiamminga nelle scene all’interno della baita, illuminate solo da luce di candela sui volti talvolta giovanili talvolta antichissimi dei due interpreti: proprio quei dialoghi quasi sognanti nella casa di pietra rappresentano alcuni dei momenti piu’ alti del film.
In generale, però, Le Otto Montagne non si fa apprezzare tanto per le scelte tecniche, quanto piu’ per la forza della storia stessa, per la monumentalità dell’impianto visivo messo in campo e lo sforzo mostrato dagli interpreti.
E’ il Due di Due degli anni ’20 del 2000: è la rappresentazione di un’amicizia anche fuori dal set, fra Borghi e Marinelli. Un film che degnamente rappresenta l’Europa tutta sul circuito internazionale, che fa sognare e viaggiare per piu di due ore e mezza, che ben scorrono nei dolci silenzi della montagna, nei suoi abeti che stentano a crescere, fra yak e torrenti che si fanno sempre piu’ aridi. Siamo di fronte anche ad un memento nei confronti del cambiamento climatico: la bellezza dell’infanzia di due bambini nati negli anni ’80, che rischia di non essere piu’ possibile per i loro, eventuali, figli.
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