Chi era Raffaella veramente? È questa la domanda che rimbomba per tutte e tre le ore di Raffa, il documentario diretto da Daniele Lucchetti. Un film ricco di testimonianze sul mito e sulla leggendaria carriera della Carrà, ma anche sul privato e sull’enigmatica Pelloni.
“È morta Raffaella Carrà”. È partito dalla fine il docufilm-fiume Raffa diviso in tre parti. Da quell’annuncio inatteso che ha destato sconcerto e dolore indicibile. Una notizia che ha fatto il giro del mondo, data in ogni lingua, giusto per far capire l’iconicità del personaggio. Il nastro si riavvolge rapidamente e ci ritroviamo nel 1943, quando tutto è iniziato. La ritroviamo bambina, abbandonata dal padre, cresciuta con mamma Iris, donna forte – tra le prime a separarsi nel post secondo conflitto mondiale – e nonna Andreina. Poi adolescente, bellissima, pronta a darsi al pubblico. Ci prova con il cinema, il film con Frank Sinistra sembra spalancarle le porte del grande schermo e di Hollywood, ma non è così. I registi non la capiscono, non puntano su di lei, ma forse è meglio così, perché quello che verrà dopo sarà irripetibile.
L’occasione della sua vita arriva nel 1969, in quei tre minuti concessi durante la trasmissione Io, Agata e tu che le permetterà di arrivare a Canzonissima al fianco di Corrado. Con lei “nasceva una nuova televisione”, ha sottolineato Renzo Arbore. “Una donna libera in un mondo patriarcale”, se ne fregava dei giudizi dei benpensanti e mostrava fiera il suo ombelico, ballava come nessuna, intuì subito il potere della discomusic portando al successo Rumore e lanciava quello stile Carrà inconfondibile che la consacrò definitivamente tra il 1971 e 1974, di fianco a Mina, a Milleluci: due leggende sullo stesso palco, due regine con la stessa corona.
All’apice del successo, Raffaella decise di lasciare l’Italia ed esportare il “fenomeno Carrà” all’estero. Parte dalla Spagna franchista, per poi girare il mondo: l’America Latina, New York, l’Inghilterra, la Francia, la Germania: tutti amano Raffa, tutti vogliono cantare A far l’amore comincia tu. Poi il ritorno in Italia coincide con uno dei momenti più bui e drammatici della storia politica italiana, il sequestro Moro e l’insuccesso di Ma che sera. Poi il ritorno al primato televisivo e l’intelligenza di comprendere e appoggiare i diritti della comunità LGBTQ; la perspicacia di reinventarsi con Pronto, Raffaella?, il breve passaggio a Mediaset dopo un corteggiamento serrata di Berlusconi a fine anni ‘80 e la rivoluzione con Carramba, portando, per l’ennesima volta, un nuovo linguaggio televisivo.
Lucchetti, però, ne ha raccontato anche un tratto privato autentico, descrivendola come donna malinconica, ma anche felice e con una grande paura di essere abbandonata, di nuovo. Lo ha fatto aiutandosi con le testimonianze dirette di Barbara Boncompagni, che ne ha sottolineato il coraggio di mettersi con un uomo separato con tre figli – il padre Gianni -, perché probabilmente aveva bisogno di una figura paterna al suo fianco, “un uomo che le facesse conoscere gli uomini”; e poi quello di legarsi a un uomo più giovane di lei, Sergio Japino. Ne è uscita fuori una personalità complessa: possessiva con i suoi ballerini ed esigente sul lavoro, a tratti dispotica, come spiega l’autrice Caterina Rita, “me la sognavo la notte e la vedevo di giorno”; ma anche tenera e severa con i nipoti.
Il mito e la donna s’intrecciano continuamente.
Carrà e Pelloni erano due cose diverse: la prima dirompente, erotica, sensuale, rivoluzionaria; la seconda riservata, fugace, misteriosa. E Lucchetti è stato bravissimo a mettere insieme tutte queste cose, a raccontare la leggenda della Carrà e le ferite della Pelloni. Il suo essere protettiva e figura rassicurante, ma anche donna fragile, rammaricata per non essere riuscita a diventare madre, perché a volte quel tempo che lei non voleva fermare è stato un po’ troppo crudele.
Montaggio meraviglioso e calzante, in grado di tenere incollati allo schermo il pubblico per tre ore di fila, durante le quali si ride e, soprattutto, ci si emoziona. Bellissimi quei momenti in cui i brani di Raffa risuonano mentre scorrono le immagini di Papa Pio XII, degli scontri nelle piazze, degli anni di piombo, della dittatura di Franco – meraviglioso il parallelismo della morte di Franco con l’esibizione Fiesta – e Pinochet, della cronaca nera. E mentre il mondo stava cambiando velocemente, quelle canzoni pop contribuivano a ribaltare la società, indicando la via a chi le cantava in ogni angolo del mondo: da Roma a Madrid, da Londra a Buenos Aires, da New York a Città del Messico.
La Carrà non se n’è mai andata. È questa è la certezza che si ha guardando Raffa. È presente nei ricordi dell’allora fidanzatino e giocatore della Juventus Gino Stacchini e in quelli di Enzo Paolo Turchi; negli aneddoti di Marco Bellocchio, che la ricorda ai tempi del Centro Sperimentale di Roma, quando studiavano per diventare attori: “Non reggeva il primo piano”, ha detto, poi diventato la sua carta vincente in Pronto, Raffaella?; nei filmati in bianco e nero e nelle immagini a colori, nell’ombelico, nel casqué e nei caschetti biondi, nei brani accesi a tutto volume in ogni festa.
Raffa si è presa tutto senza togliere niente. Ha ribaltato la musica, la televisione, la danza, il costume, la moda, la società. L’ha fatto con la sua personalità travolgente, alla sua energia spiccata, alla sua presenza scenica riconoscibile, al suo gusto mai artefatto e al suo sguardo sul mondo, sempre così sensibile e privo di sovrastrutture.
Alla fine del documentario, mentre le lacrime scendono con le immagini che scorrono sul grande schermo degli abbracci tra i parenti a Carramba, sembra che qualcosa sia sfuggita di mano, che debba essere ancora rivelata. Ma, alla fine, è giusto così, perché probabilmente non bastano 158 minuti e 150 filmati Rai, non basta un film per raccontare il mito Carrà: la storia di Raffa non è finita.
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