Parthenope di Paolo Sorrentino: recensione in anteprima

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Parthenope è il nuovo film di Paolo Sorrentino, in uscita il 24 ottobre nelle sale e distributo da Piper Film.

Nel XV secolo, Lorenzo de’ Medici compose la sua celebre Canzona di Bacco, i cui versi iniziali sono diventati nel corso dei secoli un canto dal sapore proverbiale: «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». E sembra che Paolo Sorrentino, questo inno, lo conosca estremamente bene.

A tre anni di distanza dal grande successo “È stata la mano di Dio”, il cineasta campano torna ancora una volta fra le vie della sua Napoli, per un film che, stagliandosi sullo sfondo della fugacità del tempo, vuole essere un manuale cinematografico sulla bellezza e sulla giovinezza.

E così Parthenope, unico lungometraggio italiano in competizione all’ultimo Festival di Cannes, diventa un inno al tempo che passa, alla vita che sfiorisce, per «la lunghezza e l’ampiezza della vita della quale ciascuno di noi è protagonista. Un viaggio epico che ci rende eroi», racconta il regista all’inaugurazione della settimana di anteprime che, dal 19 settembre, lo hanno visto fare capolino sul grande schermo di alcuni cinema a Roma, Milano e Napoli. Ma intorno a questo progetto aleggiano curiosità, attese e aspettative sin dall’inizio delle riprese (avviate a fine giugno dello scorso anno), alimentate dalla fitta coltre di mistero che aleggiava sul film, circa il quale sono state minime le dichiarazioni rilasciate dal suo autore nel corso dei mesi.

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Rimanevano tuttavia certe le premesse che sarebbero state, com’è tipico per i prodotti sorrentiniani, ambiziose. Ambiziose già a partire dall’evocativo titolo, che richiama non un mito napoletano, ma il mito napoletano per eccellenza, quella sirena alla quale Napoli collega la sua fondazione e il suo primitivo nome, e con essa anche i suoi abitanti (i partenopei, per l’appunto).

La suggestione del titolo di Parthenope e le aspettative che da esso scaturiscono vengono confermate già dai primi istanti di film: è il 1950 quando in famiglia Di Sangro nasce una figlia, secondogenita dopo Raimondo; si chiamerà Parthenope.

Una figlia di Napoli, piena essenza di questa città che a momenti alterni verrà tanto criticata ed esaltata, vista come modello da raggiungere e da fuggire. Da qui in poi la sinossi è semplice nelle sue linee generali e non perde mai di coerenza: si racconta la vita della splendida Partenope, dai suoi diciott’anni fino ai giorni nostri; si mettono su schermo le sue estati giovanili, accompagnate dai primi amori (sebbene appaiano più come dei flirt sapientemente condotti dalla giovane), e poi gli anni che fluiscono portandola alle soglie dell’adultità, con il duro impatto che ne consegue.

Dunque un’epopea al femminile, che risulta vincente per il ricco cast di cui si compone, per le inquadrature sapienti, per le appropriate scelte musicali ma soprattutto per la straordinaria interpretazione che Celeste Dalla Porta –una rivelazione per il cinema italiano- offre della protagonista, una donna misteriosa che riverbera la malìa di quell’ancestrale sirena, una donna la cui straordinaria bellezza costringe chiunque la incontri a fermarsi per ammirarla, anche la macchina da presa, che sovente la mostra con dei primi piani ravvicinati, oppure immersa in panorami ameni -si gioca facile ricorrendo ai magnifici Faraglioni di Capri- e attraverso composizioni geometricamente perfette. L’attenzione è tutta sugli sguardi, che non abbandonano mai l’inquadratura, ma anzi la catturano; nulla che sia nuovo a Sorrentino, che quando vuole mettere in risalto un personaggio sa bene come farlo. Eppure Partenope non assurge al ruolo di semplice seduttrice spensierata che vuole soltanto godersi la sua giovinezza. La fille fatale creata da Sorrentino è un personaggio sfaccettato ai limiti del controverso, sospesa fra termini definitori posti agli antipodi, un’anima priva di filo conduttore. Per tutta la sua vita Partenope non cerca altro che una definizione di se stessa, la (ri)composizione di un’identità che sente urgente la necessità di affermarsi, comprende di avere i mezzi per riuscirci ma comunque non centra il bersaglio, rimanendo soltanto sul bordo dell’anello più interno. Così si mostra Partenope, così la giudicano i costanti sguardi degli altri: bella, furba, con la risposta pronta, ma anche frivola, svogliata, arrogante, fredda; eppure nessuno ne coglie la vera essenza. Nessuno può comprendere cosa ci sia dietro i suoi occhi così belli e così spenti. «La verità è indicibile» dirà lei stessa.

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Ph Gianni Fiorito.

Interlocutore privilegiato, unico che riesce a vedere la vera Parthenope, è il suo Professore di Antropologia Devoto Marotta (Silvio Orlando), uomo scorbutico e temuto, anch’egli imperscrutabile. Il rapporto tra lei e l’antropologo sarà l’unico che non si limiterà all’apparenza: «Io non la giudicherò, lei non mi giudicherà»; un patto di reciproco non giudizio che risulterà determinante, svelando la giovane e trainandola verso una carriera accademica che sarà per lei salvifica.

Un mistero vivente, quello di Parthenope e dei suoi desideri, che ben si sposa con le scelte di regia: l’ambientazione folkloristica napoletana; i personaggi eccentrici, inquietanti e blasfemi con cui la giovane intreccia la propria vita; un utilizzo costante della simbologia attraverso elementi ricorrenti (primo fra tutti il mare, non a caso luogo di nascita di Partenope, sicché era usanza diffusa fino al secolo scorso che le donne partorissero in acqua); l’intimità della colonna sonora firmata da Lele Marchitelli, che messa a confronto con la caotica vita della protagonista crea profondo straniamento; la sapiente costruzione dei giochi di luci e ombre, con un’evidente predilezione per ambienti più chiusi e oscuri, ben lontani dalla luce e dai colori dell’inizio, man mano che gli anni passano (fondamentale il ruolo di Daria D’Antonio alla fotografia, una conferma nell’entourage sorrentiniano dopo È stata la mano di Dio). Tutto (ma proprio tutto, persino la scelta delle acconciature e dell’abbigliamento) concorre alla creazione di una linea evolutiva che ruota intorno alla costante ricerca di consapevolezza e libertà della protagonista.

Ma un film così avvolgente, conturbante e a tratti onirico può definirsi, in finale, un racconto di formazione? Difficile da dirsi. Magari sì, ma non solo. Anzi, probabilmente solo in minima parte. Anche dopo i 136 minuti di proiezione, lo spettatore uscirà dalla sala senza poter dire di aver compreso davvero Partenope. Potrà però rendersi conto, attraverso le parole della donna ormai giunta all’ultima fase della sua vita, che un minimo di coscienza di sé sia stata raggiunta: “Sono stata triste e frivola, determinata e svogliata, viva e sola”. Eppure la Della Porta si mostra anche sul finale meditativa, silenziosa, con gli occhi che non hanno comunque raggiunto la lucentezza nonostante i successi e le soddisfazioni inanellati. Quegli anni ’70 che le hanno improvvisamente strappato via il primitivo rigoglio hanno finito per segnarla senza scampo, mandandola emotivamente alla deriva. A consolarla -e a consolarci- resta il fatto che la caparbia e la prontezza di Partenope le hanno concesso, in fin dei conti, di appagare quel suo perdurante desiderio di libertà giovanile, prendendo anche decisioni che le hanno comportato di fermarsi e ricostruire da capo, altrove.

Ma, come detto, probabilmente non è probabilmente questo il messaggio che Sorrentino ha voluto mandare. O almeno non l’unico. Partendo dal presupposto che non esista un solo modo di interpretare questa pellicola, e che forse sia necessaria almeno una seconda visione per essere certi di averlo compreso a pieno, Parthenope sembra dapprima una lotta proustiana contro il tempo perduto, poi un decadente manuale di preparazione alla vita adulta, poi ancora una dedica d’amore per Napoli, la vera musa ispiratrice del regista, quella città che non manca mai e mai guasta, qui epurata da quegli stereotipi fin troppo canzonati dalla cinematografia, ma non per questo salvata da tutti quei difetti, eccentricità e fosforescenze che innegabilmente ci sono e ancora una volta vengono portati sulla scena. E infine, Parthenope rappresenta un’ode al disincanto, che inevitabilmente coinvolge ciascuno di noi, qui rappresentato con un realismo duro da far male, quasi quanto lo straziante -ed emblematico- ballo sulle note di Era già tutto previsto di Cocciante.

Sfortunatamente a Cannes Parthenope è stato reputato fra i titoli più deludenti della kermessequi visibile il trailer. Forse giudicato troppo frettolosamente come un’eco sbiadita di quell’ammaliante astrazione che Sorrentino aveva creato con La Grande Bellezza, di cui si avverte senza dubbio l’impronta. Ma siamo tuttavia certi che, quando uscirà nelle sale, a partire dal 24 ottobre, la critica avrà modo di cambiare idea.

Silvia Mangiatordi

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