È Stata la Mano di Dio, un viaggio lungo una vita [Recensione]

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“A me piace il conflitto, senza conflitto non si progredisce”

Così Antonio Capuano, in una delle scene più emozionanti del film, ammonisce Fabietto.

È stata la mano di Dio è un lungo viaggio all’interno del conflitto interiore del protagonista e di una città che egli cavalca e subisce allo stesso tempo.

L’ultimo (capo)lavoro di Sorrentino si apre con una scena che toglie il fiato, in una Napoli che si conquista dal mare, a volo d’uccello, ci si avvicina e la si costeggia senza possederla mai, fino ad entrare nell’automobile di San Gennaro. Una Napoli deserta, come le scene de La grande bellezza che restituivano una Roma senza auto e silenziosa, ai limiti del mistero. Qui Napoli è subito protagonista materiale e immateriale, perché il lungometraggio si apre con un sogno, quello di Zia Patrizia interpretata da una magistrale Luisa Ranieri che domina letteralmente la prima mezz’ora del film. Troviamo o Munaciello, personaggio iconico della tradizione folkloristica partenopea, troviamo la Napoli dei palazzi e delle esistenze al limite.

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Ogni personaggio di È stata la mano di Dio vive una sua battaglia, dentro ogni carattere convivono luci ed ombre. Subito balza agli occhi, ad esempio, l’alchimia esplosiva tra i genitori di Fabietto (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Che ci trascinano in una prima parte del film che trabocca di risate ed entusiasmo salvo poi scivolare irrimediabilmente nella tragedia e nel dolore. È una metafora del palcoscenico su cui recitano le esistenze dei protagonisti, è Napoli che unisce gioia e dolore, entusiasmo e tragedia, è la metafora calcistica e personale che accompagna Maradona che appare in vari momenti del film come un deus ex machina a risolvere situazioni apparentemente irrisolvibili. Salva la famiglia Schisa da una crisi apparentemente irreversibile, salva una città da un destino apparentemente segnato, salva la vita a Fabietto e a Paolo Sorrentino.

“Buon Dio, ha segnato con la mano, ha vendicato il glorioso popolo argentino dall’aggressione imperialista alle Malvinas. È un atto politico, è la rivoluzione”

Così esclama uno strepitoso Renato Carpentieri dopo il famoso gol di mano di Diego agli inglesi, e dopo la morte dei genitori di Fabio continua dicendo che è stata la mano di Dio a salvarlo dalla morte. Una grande forza di questa pellicola è la grandezza di personaggi secondari come appunto Renato carpentieri e Betti Pedrazzi, capaci con le loro poche ma memorabili battute di entrare subito nell’immaginario citazionista degli appassionati. Un universo di facce e storie ricche della promiscuità propria della città di Napoli. Così la famiglia di origine Tirolese convive nello stesso palazzo napoletano con la baronessa e la famiglia comunista di un bancario. Nell’assemblare quello che potrebbe sembrare un Circo Barnum ma che invece è la rappresentazione perfetta della vita che quasi tutti viviamo c’è una delle immense bravure di Paolo Sorrentino, capace con la lente della sua macchina da presa di uscire da noi stessi e farci rendere conto di che teatro a cielo aperto è spesso la nostra vita.

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“Nessuno se ne va veramente da questa città”

Da quel momento il film prende una piega diversa, rallenta per dare spazio all’eco interiore del protagonista che comincia ad espandersi in maniera silenziosa, fino a diventare assordante. L’ottimo Filippo Scotti, all’esordio sul grande schermo, comincia un percorso che lo porterà a maturare la voglia di voler crescere, diventare grande, un po’ in maniera forzata certo ma noi insieme a lui compiamo questo viaggio teso a trovare un ordine nel caos. È stata la mano di Dio ricorda alcuni dei primi lavori del regista napoletano in cui i personaggi prendono il sopravvento sul resto, come ne l’Uomo in più ad esempio, dove i destini personali dei protagonisti cercano un riscatto, spesso in modo fallimentare. Così Fabietto alla fine della pellicola diventa Fabio, cresce, e prova a guardare avanti.

In questo viaggio visitiamo una Napoli conosciuta ed anche una città mai vista dai più, ad esempio la scena finale con Capuano è a Villa d’Abro a Posillipo. Le location che spaziano dal capoluogo partenopeo fino a Stromboli passando per Capri e Massa Lubrense sono amplificatori degli stati d’animo dei protagonisti della storia. Roccaraso, ad esempio, è cupa ed angusta nelle poche scene che la riguardano come a voler rimarcare che quello per l’autore è un luogo carico di negatività. Al contrario il condominio al Vomero, dove davvero Sorrentino ha vissuto fino ai suoi 37 anni, è ricco di colori e persone che ne simboleggiano le diverse anime. Siamo spettatori di un ritorno “ai luoghi naturali”, un modo come un altro per dare forma alla frase secondo cui nessuno va mai veramente via da una città come Napoli, anche se alla fine Fabio cede e scappa a Roma poi sappiamo che, fuoriuscendo dallo schermo, ci ritornerà perché è quello il luogo e la storia che ha sempre aspettato di raccontare.

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Così dice Capuano a Fabio nella scena madre che anticipa la fine del film, e in qualche modo è vero. Per questo motivo anche Sorrentino alla fine ci ritorna ma lo fa nel momento in cui ha pieno controllo dei suoi mezzi tecnici e narrativi. Scrive e dirige un film in cui prova a spiegare ai suoi figli molti dei suoi silenzi, così ha dichiarato in un’intervista, e lo fa senza ruffianerie. Avrebbe potuto ad esempio raccontare questa storia potentissima già molto prima. Aveva una cosa da raccontare ma l’ha tenuta per sé il più possibile, ha aspettato probabilmente di capire quando era il momento di lasciar andare. Ha trattenuto tutto per non disunirsi, per non disperdere tutto quello che si può imparare dalla sofferenza.

In questo modo È stata la mano di Dio ha restituito allo spettatore, a Maradona, a Napoli e al cinema un racconto intimo ed universale capace di tenere insieme sacro e profano, bello e turpe, legale e illegale, divino e terreno.

Raffaele Calvanese
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