E se Mistah Kurtz aspettasse i suoi pellegrini nelle profondità del sistema solare? Se il viaggio, serpentino e allucinante, si svolgesse nel tumultuoso vuoto dello spazio invece che nelle giungle? E se Kurtz, laggiù, non avesse scoperto alcun nativo da cui farsi venerare e cui impalare la testa su una picca?
È questa l’idea alla base di Ad Astra di James Gray, film del 2019 con protagonista Brad Pitt.
L’attore, che oramai possiamo considerare fra le certezze di Hollywood per versatilità e credibilità, interpreta Roy McBride, un astronauta e ingegnere figlio di una leggenda: Clifford McBride, interpretato da un oramai anziano Tommy Lee Jones, teorico e fondatore del progetto LIMA, una spedizione ad alto rischio (la cui astronave madre è alimentata da un cuore di antimateria) con lo scopo dichiarato di raccogliere dati sulla possibilità della vita su pianeti esterni al sistema solare, superando dunque il bow shock. Le comunicazioni quando la nave si trovava nei dintorni di Giove, dunque ben lontana dall’eliopausa – la zona in cui il campo magnetico solare non ha virtualmente più effetto – che avrebbe dovuto essere iniziale meta.
In un passato meno remoto, la Terra ha iniziato a subire dei devastanti – quanto antiscientifici, se mi permettete, ve ne prego – picchi elettromagnetici: Roy viene dunque convocato dallo SpaceCom (l’agenzia spaziale unitaria), e gli viene spiegato che tale perturbazione probabilmente deriva dal progetto LIMA; suo scopo sarebbe andare su Marte, ultimo avamposto umano prima dello spazio profondo, e lanciare da lì un messaggio al padre, nella speranza che almeno lui verrà ascoltato dallo scienziato. Il viaggio inizia dalla Luna, un selvaggio far west, con la conoscenza di un’altra leggenda dell’esplorazione spaziale, il colonnello Pruitt, e passerà per il pianeta rosso, la cui colonia sotterranea (e immune ai picchi) è gestita da Helen, una Ruth Negga a cui viene lasciato ben poco spazio. Ah, giusto. C’è anche Liv Tyler, l’eterna moglie dei viaggiatori, l’ex compagna di Roy, in quanto la loro relazione è andata in crisi per l’ossessione dell’uomo per il suo lavoro.
A prima vista, dunque, Ad Astra ci ricorda illustri modelli: 2001 Odissea nello Spazio, per la maestosità della visione di fondo – la Via Lattea brillante su un drappo di cielo nero, la lucentezza delle claustrofobiche superfici delle Soyuz e della Cepheus, l’astronave tramite la quale Roy raggiunge Marte dalla Luna – e Sunshine, di Danny Boyle, per la scelta dichiarata di lasciare che scenografie e psiche dei protagonisti si accordino, come se lo spazio, gigantesco ed infinito, potesse piegarsi ai moti d’animo dell’uomo. Laddove, però, il bellissimo Sunshine risultava un B movie, lo sforzo economico dietro Ad Astra è sicuramente imponente: già dall’accurata ricostruzione di uno spazioporto lunare, al solo cachet di un attore mitologico come Donald Sutherland che interpreta il colonnello Pruitt – per i più familiari col romanzo di Conrad, una summa dei vari compagni di viaggio di Marlowe verso Kurtz – per arrivare alla strabiliante sequenza finale negli anelli di Saturno, Ad Astra soppianta, visivamente, quanto di fantascienza “realistica” si era visto finora. A metà fra Gravity ed Interstellar, Ad Astra ha però le pretese filosofiche e psicologiche di Solaris, anche in assenza di simmetriadi e divinità in fasce. Con Solaris – parlo di quello del 1972 di Tartovskij, ovviamente – ha in comune anche la disperazione: laddove la prima entità “senziente” scoperta dall’umanità era un pianeta ribollente di misteri, qui la desolazione della solitudine è affidata ad un Tommy Lee Jones orgogliosamente pazzo, contrariamente al protagonista del suddetto, e che mai si arrenderà all’assenza di vita al di fuori del nostro sistema solare.
Laddove l’interpretazione assolutamente superba di Brad Pitt dà vita ad un personaggio reale, potente, espressivo nel suo mutismo e nel suo Asperger, lo stesso non si può dire delle scelte di sceneggiatura da parte dello stesso regista James Gray e da Ethan Gross, firmatario anche di svariati episodi della serie tv Fox Fringe, che mancano di coerenza e sfruttano fin troppo spesso la sospensione dell’incredulità, oltre alla mancanza di consulenza scientifica che, in un impianto scenico che ha sfruttato strumentazioni NASA e SpaceX, avrebbe dovuto essere doverosa. Perché, amici miei, non serve conoscere la meccanica quantistica (ma basta aver letto Angeli e Demoni di Dan Brown) per capire che sganciare una bomba nucleare su un nucleo di antimateria in corrispondenza di un gigante gassoso come Nettuno, insomma, forse non è proprio una grande idea. La resa scenografica di Ad Astra, la fotografia gelida, calda, cyberpunk, di Hoyte Van Hoytema (già Interstellar), atta a mimare la crudele giunga del Congo nello spazio aperto, è, come ho già detto, splendida, ed eleva il film – purtroppo povero in scrittura – al livello di documentario forse didascalico.
Vien quasi da dire che, se il lavoro di Gray fosse stato un film muto sperimentale da presentare al Sundance, avremmo gridato al capolavoro.
Per ciò che concerne i dati tecnici – quali tempistiche, montaggio, scelte registica – come ho già detto, Ad Astra è un lavoro assolutamente senza sbavature. Max Richter è fra i più grandi musicisti contemporanei, ma in Ad Astra la sua penna non brilla, limitandosi ad un tema un po’ abusato in accordi maggiori e diminuiti nei momenti di maggior pathòs.
La crudeltà di Clifford, chiuso nel suo alto castello, nella sua torre di cristallo, rasenta il parossismo nel suo giganteggiare scientifico: mondi infiniti, e l’infinita disperazione dell’essere soli nell’Universo – il compimento del paradosso di Fermi. Forse è proprio lo spettro del personaggio di Tommy Lee Jones, che aleggia nella mente di Roy come un cancro, la forza filosofica dietro Ad Astra: dove può spingere l’ambizione? È essa giustificata? È la scienza, sempre e comunque, giusta? Il crudele inganno dell’ammirazione prima, e della delusione poi. Semidei che diventano minacce prima, fonte di dolore poi. Scimmie impazzite divorano umani, e poi il nulla.
Ad Astra, come Cuore di Tenebra prima e Solaris poi, si chiude con un’amara speranza. Ed è un’amara speranza quella che noi abbiamo riposto in esso, perché l’emotività del lavoro si regge sulle spalle di chi ha dovuto costruire l’ambiente in cui Roy e Clifford si muovono, lo spazio ostile, privo d’ossigeno, gelido; astronavi in rovina abbandonate e solitarie. In conclusione, Ad Astra è ben lontano dall’essere un competitor, come resa finale, al primato dei capolavori sci-fi già citati, ma sicuramente è una produzione che può dare linfa vitale alla fantascienza psicologica, tematica che sembrava esser stata abbandonata.
Ah, e ricordatevene, per il futuro: materia e antimateria si annichiliscono. Sempre.
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