«Qual è il prezzo delle bugie non che le confondiamo con la verità, il pericolo è che abbiamo ascoltato tante di quelle bugie, da non riconoscere più la verità. Cosa fare allora? Non resta che abbandonare anche solo l’idea della verità e accontentarci delle storie. In queste storie non importa chi siano gli eroi, quello che vogliamo sapere è a chi dare la colpa». (Chernobyl 01×1)
È con l’invito ad abbandonare l’idea della verità, per accontentarci delle storie, che inizia Chernobyl la miniserie statunitense che, andata in onda tra giugno e luglio 2019 in Italia e poco prima negli Stati Uniti, racconta i tragici eventi dell’incidente della centrale nucleare V.I. Lenin verificatosi il 26 aprile 1986 nell’Ucraina sovietica, precisamente nella città di Pryp”jat’. La miniserie, creata e scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck, è incentrata sulle conseguenze dell’esplosione del reattore numero 4. Fin dal primo momento la narrazione evidenzia una dicotomia tra i personaggi: da un lato ci sono i colpevoli, che ci vengono presentati come degli inetti, e dall’altro ci sono gli eroi e le vittime che altro non sono che cittadini qualunque. Il modo in cui vengono raccontati i fatti ora per ora aumenta sempre più il risentimento che lo spettatore prova nei confronti degli uomini di partito, i colpevoli, dipinti come uomini ignoranti, arroganti e del tutto incompetenti, al punto da sottovalutare costantemente la portata del disastro nucleare che, stando ai fatti, era stato provocato dalla loro stessa negligenza. Il realismo del racconto e della sua messa in scena tende a ingannare lo spettatore facendo percepire la serie come una ricostruzione documentaristica che, quindi, viene inconsciamente data per veritiera. In realtà la miniserie si basa sui resoconti, conditi di melodramma e interrogativi morali, degli abitanti di Pryp”jat’ raccolti nel libro Preghiera per Chernobyl (Edizioni e/o, 2001).
Il forte realismo delle immagini, percepito dal pubblico come verosimile, non ha lasciato impassibile gli spettatori al punto che è possibile proporre la definizione di un “effetto Chernobyl”: immersi nella narrazione, gli spettatori entrano in una trance narrativa che li porta indietro nel tempo di circa trent’anni immedesimandosi con la sofferenza, il dolore e il disastro che circonda le vittime.
Un’immedesimazione così profonda da far sì che alcuni decidano di abbandonare le vesti degli spettatori per intraprendere il viaggio, con visita guidata, nella centrale nucleare. Lo spettatore si ritrova immerso nella narrazione al punto da utilizzare la serie come frame interpretativo della realtà non riuscendo più a delimitare realtà e finzione. Infatti il timore che l’immaginario collettivo possa essere stato persuaso dei pericoli del nucleare, a livello ambientale e non solo, ha spinto la World Nuclear Association a produrre una guida per gli spettatori di Chernobyl e allo stesso tempo ad aggiornare i materiali informativi per tranquillizzare il pubblico americano, adesso più informato e consapevole, sulla sicurezza dei reattori. Chernobyl è solo uno degli esempi di come la serialità contemporanea assume un valore non solo di intrattenimento, ma anche, e forse soprattutto, di informazione.
A cura di Claudia Mustillo
Leggi anche
- Alla conquista del Congresso, il documentario Netflix su Alexandria Ocasio-Cortez - Maggio 6, 2020
- The Post, come Steven Spielberg racconta la libertà di stampa - Maggio 4, 2020
- Star Trek-Picard, la nuova attesissima serie firmata Amazon Prime Video - Gennaio 23, 2020
2 commenti su ““Effetto Chernobyl”: quando un serie tv non è solo intrattenimento”
I commenti sono chiusi.