Nel 1937 nascevano a Roma gli studi di Cinecittà, la risposta italiana ai sogni hollywoodiani, cornice di grandi capolavori cinematografici di ieri e di oggi: più di 3 mila pellicole girate, 90 candidature agli Academy Award e 47 Oscar conquistati.
Ci sono alcune pagine di storia che mi piace particolarmente raccontare, che hanno da sempre impresso in me un fascino senza eguali. Mi piace raccontare eventi che non ho vissuto direttamente ma solo incontrato sui libri perché solo così posso comprendere il presente. La storia l’ho sempre immaginata come un grande teatro, un palcoscenico in cui le vicende dell’uomo si sono sviluppate attraverso la forza degli ideali e delle passioni. Tra le più belle ed affascinanti pagine di storia c’è Cinecittà, con i suoi miti e i suoi anni ruggenti.
Il grande complesso di teatri di posa per il cinema, situato alla periferia di Roma, fu aperto con una inaugurazione il 28 aprile del 1937. La costruzione di Cinecittà fu una scelta del regime fascista che investiva molto nel cinema come strumento di propaganda dell’identità italiana e delle opere del regime stesso: gli stabilimenti rappresentavano un’industria del consenso attraverso il controllo della cinematografia e dell’informazione audiovisiva. Tuttavia, dopo la guerra e grazie ad una legislazione creata ad hoc per rimettere in moto il cinema italiano, è a partire dagli anni Cinquanta e per tutto il miracolo economico che Cinecittà ebbe il suo massimo splendore divenendo la “Hollywood del Tevere”, la fabbrica dei sogni all’italiana. Il primo kolossal americano girato a Cinecittà è datato al 1950, ed è Quo vadis?, poi seguito da Ben Hur del 1959.
Quei vent’anni – dal 1950 al 1969 – Cinecittà visse una stagione straordinaria, era per molti il sogno proibito, appassionando e sconvolgendo Roma che divenne il centro propulsore del cinema mondiale, divenne la città dei divi e dei grandi registi, delle notti mondane, dei tormentati e sognati amori, del divertimento ad ogni costo, delle produzioni a stelle e strisce. Hollywood sembrava perfino essere in subordinazione rispetto alle maestranze portate in scena a Cinecittà.
L’Italia del boom economico e della «Dolce Vita» è stata la regina del cinema internazionale di questo breve ma intenso periodo.
Fu anche il periodo in cui il cinema italiano fece scuola nel mondo. Infatti, se pensiamo alle massime dive del cinema mondiale dell’epoca, queste furono tutte italiane: Gina Lollobrigida, Silvana Mangano e Sophia Loren. Ma anche De Sica, Rossellini e Visconti ebbero il merito di portare il cinema nelle strade, tra la gente comune, con il neorealismo; Anna Magnani conquistò i cuori vincendo l’Oscar per La rosa tatuata, nel 1955; Walter Chiari appassionò il gossip mondiale con la sua folle e travolgente storia d’amore con Ava Gardner; mentre Marcello Mastroianni con la sua aria sorniona, pigra e malinconica conquistò Hollywood. Insomma è in questo contesto storico che si mosse e si celebrò il cinema italiano nel mondo.
Dunque, nel periodo in cui la Fiat sfornava le prime automobili di massa e l’Eni sfruttava le nostre infime risorse energetiche, gli italiani conoscevano il benessere, ed il cinema non rimase alla porta a guardare, ma raccontava questo fenomeno attraverso dei veri capolavori, delle pietre miliari nel panorama artistico italiano. Dopo la sfolgorante, intensa e breve stagione neorealista, al cinema italiano si chiese un intrattenimento diverso da quello del decennio scorso, un intrattenimento che raccontasse storie di vita vere, plausibili e autentiche, storie che avessero a che fare più da vicino con gli italiani stessi, con la loro voglia di riscatto e con la loro voglia di rinascita di un’intera nazione ancora in ginocchio.
Il cinema italiano degli anni Sessanta era il risultato di una serie di processi storici che investirono il nostro Paese dalla fine della seconda guerra mondiale e alla conseguente, e inevitabile, influenza statunitense.
La nascita di un governo di centro-sinistra, i nuovi modelli di vita, il processo di industrializzazione, l’aumento dei consumi di massa, la perdita d’identità delle classi sociali, la nuova distribuzione del tempo libero, la maturazione di una coscienza politica, il cambiamento dei comportamenti sessuali, l’emigrazione di massa dal Sud al Nord. Insomma, l’Italia di quegli anni diede il suo grande contributo alla storia dei generi cinematografici, reinventando e riadattando i codici classici all’esigenza di un pubblico più attento alle tematiche sociali e politiche. Dalla fine degli anni Cinquanta fino alla prima metà degli anni Settanta si assistette a una vera e propria esplosione del cinema di genere: come il western, la commedia, il cinema politico, il thriller-horror.
Ma se il punto di svolta del nostro cinema furono le pellicole dei primi anni Cinquanta quali La famiglia Passaguai e Pane, amore e fantasia, a stravolgerlo totalmente furono le pellicole leggendarie come Poveri ma belli, I soliti ignoti e La dolce vita, che contribuirono a lanciare nel mondo il «mito del belpaese», della «dolce vita italiana», sinonimo di spensieratezza e di benessere economico.
Infatti, proprio La dolce vita di Fellini e Mastroianni costituì un momento di vero capovolgimento della mentalità degli italiani, e soprattutto rese palese l’ormai dilagante mutazione degli usi e costumi, che fino a due o tra anni prima le istituzioni politiche e religiose avevano cercato di mantenere sotto controllo. Proprio quel 1960 – anche l’anno de La ciociara, di Vittorio De Sica e di Sophia Loren, e di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti – fu il nostro anno mirabilis, dove il cinema lavorava con grande libertà creativa ed espressiva. La bottega artigianale di Cinecittà raggiunse il punto più alto della loro estrosità.
Il 1960 è ancora considerato l’anno migliore, economicamente e socialmente parlando, della nostra nazione unita, il punto più alto, dove la ciliegina sulla torta non potevano che essere le Olimpiadi di Roma, tant’è vero che le questioni politiche, «centro-sinistra si e centro-sinistra no», il governo Tambroni e quant’altro, poco o nulla interessavano alla popolazione in pieno fermento, quella in bianco e nero che sognava la «Dolce Vita» di Cinecittà.
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