Lanciata da Netflix il 23 marzo, la serie tv Freud è un thriller storico che non ha niente a che vedere con la biografia del padre della psicanalisi
Niente psicologia, filosofia e oniricità. Freud è una serie horror ed esoterica, in cui il padre della psicanalisi viene reinventato a detective e prestato a cacciatore di un serial killer violento nella Vienna del XIX secolo. Creato da Marvin Kren, insieme agli sceneggiatori Stefan Brunner e Benjamin Hessler, gli otto episodi sono un’accozzaglia di generi inseriti un po’ a caso, un tutto e niente che sviliscono lo spettatore.
Io, ad esempio, ho finito la serie quasi per inerzia e senza convinzione. Come se, in un certo senso, sperassi di vedere un barlume di quel Sigmund Freud studiato e imparato a conoscere sui banchi di scuola e non rappresentato come un semplice cocainomane, ridicolizzato ed etichettato come pazzo negli ambienti accademici. Ma non è stato così.
Il primo episodio, tuttavia, parte veramente bene: vediamo Sigmund Freud (Robert Finster) intento ad affinare le sue capacità di ipnosi con una donna anziana che una volta ha perso una figlia in circostanze tragiche. Tuttavia, scopriamo subito che quella donna non è altro che Lenore (Brigitte Kren), la sua governante, che sta addestrando goffamente per convincere colleghi e superiori che l’ipnosi sia l’elemento centrale del nostro inconscio.
Le credenze del giovane Freud sono ostracizzate nel mondo scientifico che lo vede come un ciarlatano ebreo, per di più cocainomane e inaffidabile. Ma Freud è ansioso di dimostrare il suo valore non solo davanti al suo professore Theodor Meynert (Rainer Bock) e al suo collega e rivale Leopold von Schönfeld (Lukas Thomas Watzl) che lo disprezzano, ma anche davanti la sua fidanzata Martha, la cui madre disapprova i suoi metodi “medici” e auspica un marito più facoltoso per sua figlia.
Ciononostante, ero davvero convinta che gli sceneggiatori raccontassero davvero il processo che ha portato Freud ad essere da semplice neurologo inesperto a padre della psicanalisi.
Le cose cambiano quando Freud viene coinvolto dagli agenti di polizia Kiss (Georg Friedrich) e Poschacher (Christoph F Krutzler) nell’omicidio di una giovane prostituta. Da questo momento in poi l’assurdo gotico prende il sopravvento e Freud si vede protagonista nel risolvere gialli come se fosse uno Sharlock Holmes qualunque. A confondere le idee è anche la liaison amorosa – se così vogliamo chiamarla visto che di liaison c’è ben poco – con Fleur Salome (Ella Rumpf), una medium ungherese conosciuta durante una serata a casa del conte Viktor (Philipp Hochmair) e della sua misteriosa e inquietante moglie, la contessa Sophia (Anja Kling).
Fleur diventa ben presto la paziente più importante con cui Freud si può confrontare ed esercitare l’ipnosi. Tuttavia, il “viaggio” nel passato della ragazza ci rivela una realtà fatta di ossessioni, complotti, violenze, sangue, sesso e demoni che ci allontanano dal significato stesso di psicoanalisi e ci portano a partecipare in un contesto a limite, tra mistery e noir. La surrealtà e l’eccessività dello spettacolo è talmente forte – a tratti fastidiosa – che risultano dannose durante lo scorrere delle sequenze. Addirittura tratta di un’insurrezione politica contro l’imperatore che si rivela del tutto irrilevante alla storia che mette al centro le manifestazioni inquietanti di psiche represse, dando atto a momenti horror che sfiorano l’esilarante.
La fotografia gotica rende tutto meno mortificante
Nonostante che Marvin Kren e gli sceneggiatori – Benjamin Hessler e Stefan Brunner – si siano presi molte libertà creative – forse anche troppe – non si sono dissociati dal tempo e dalla politica della Vienna di fine Ottocento. Ad esempio, la discriminazione che Freud affronta perché ebreo è sottolineata dal più volte citato conflitto tra Austria e Ungheria. La sceneggiatura inquietante ed una fotografia che rende maestosa la città e i suoi sottoborghi, omaggiando una delle capitale europee più belle e suggestive, creano un’atmosfera gotica perfetta. Ma tutto questo non basta per rendere coinvolgente la produzione.
Questo perché la personalità reale di Sigmund Freud, così come la conosciamo, scompare poco alla volta, si mischia con una narrativa che potrebbe essere interessante se non si chiamasse “Freud”, ma che si rivela essere un’assurdità. Le trame secondarie non fanno altro che confondere la centralità dell’ipnosi, lasciando nello spettatore quella sensazione di confusione e incompiutezza, nonostante abbia un finale chiuso. Ma quello che mi chiedo è perché è stato usato Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi per risolvere i crimini nella Vienna del XIX secolo?
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