Uscito su Netflix il 2 aprile, Madame Claude è un ritratto complesso e documentato della maitresse più famosa al mondo nella Parigi degli anni Sessanta. Un biopic a tinte thriller che affronta temi importanti come la parità di genere, l’emancipazione femminile e il gender gap.
Madame Claude è l’ultimo lungometraggio di Sylvie Verheyde che ripercorre il viaggio imprenditoriale della prostituta più famosa del mondo, soprannominata “Maitresse de la Republique”, per via dei suoi clienti che comprendevano importanti uomini d’affari, governanti del paese, reali e celebrità. La sua attività fiorì durante gli anni di De Gaulle e Pompidou, con le autorità che permisero ai suoi affari di prosperare in cambio di informazioni dirette all’intelligence francese.
Quello portato in scena è un ritratto di una donna e una fotografia di un’epoca.
E’ la storia di Fernande Grudet, detta appunto Madame Claude, una figura realmente esistita. Una donna di potere in una società di soli uomini, alla vigilia dei grandi movimenti che portarono all’emancipazione delle donne e testimone della fine di un’era. Ma è anche il racconto della Francia dei “trent’anni gloriosi”, della crescita e della piena occupazione, di un ambiente alla vigilia della rivoluzione sessuale. Questo è tutto ciò che troviamo nella pellicola francese che ricostruisce con un lavoro rigoroso e romanzato il corso di Madame Claude.
“Mi sono reso conto molto presto che la maggior parte degli uomini ci tratta come puttane. Ho deciso di essere la regina delle puttane. Usare i nostri corpi come braccia e come armature, per non soffrire mai più”.
La sequenza di apertura della voce fuori campo di Fernande Grudet (il vero nome di Madame Claude)
Con una sequenza alla Tarantino maniera, siamo catapultati nel 1968, il periodo di massimo splendore per l’attività di Claude Madame (Karole Rocher). Lei è fredda e autoritaria, distaccata e calcolatrice con quelle che considera “sue figlie”, ovvero le decine di prostitute che lavorano per lei: le plasma, le educa, le trasforma. Dietro la maschera di quelle ragazze fatta di pellicce e tacchi alti, gioielli e abiti lussuosi, locali di alta moda, festini a base di alcol e droga, ambienti di alta borghesia e scambi di battute su Kennedy e Marlon Brando, si celano sofferenze psicofisiche devastanti.
Ma le cose per la donna si trasformano quando nella sua vita arriva la giovane Sidonie (Garance Marillier), una ragazza cresciuta fra gli alti agi della borghesia, che imparerà rapidamente i segreti del mestiere e diventerà il suo braccio destro. Ad un certo punto, più che un biopic, il film pare più il ritratto a confronto di queste due donne, di generazioni e background diversi: se Claude proviene da una famiglia modesta di provincia, Sidonie conosce tutti i benefici della società.
Mentre Claude è lontana da una figlia che ha vissuto poco, per via della giovane età, trova in Sidonie il suo alter ego e quella figura che le permette di essere madre, scoprendosi capace di amare qualcuno. Scopriamo presto che la ragazza cade nella prostituzione perché ha un rapporto complicato con il padre, e ha vissuto un evento traumatico in passato. Queste relazioni familiari disfunzionali sono al centro del viaggio delle due donne.
E’ proprio il rapporto tra le due – forse il meno realistico dal punto di vista storico – quello più interessante dell’intera pellicola.
Tuttavia non mancano gli elementi storici del film, quelli che raccontano la protezione che lo Stato riservava alla Maitresse, impersonificati da alcuni uomini che ruotano attorno a Claude e al suo impero. Troviamo il gangster Jo Attia (Roschdy Zem), che rappresenta il banditismo della Parigi di fine anni ’60. Lo Stato invece è incarnato dall’agente dei servizi segreti Serge (Pierre Deladonchamps) e dall’ufficiale di polizia Georges (Benjamin Biolay).
La voce fuori campo di Madame Claude, posata in tono monotono da Karole Rocher, accompagna l’ascesa e la caduta della Maitresse.
Se la prima parte del film è minuziosa, con una narrativa esemplare, la fretta dei racconti che appartiene al secondo capitolo – si passa velocemente dall’inizio degli anni ’70 agli anni ’90, per arrivare all’epilogo – rappresenta l’anello debole dell’intero lavoro. Sicuramente la caduta di quel mondo dorato, durato per circa quindici anni, avrebbe meritato più attenzione e più particolari, magari un’intera serie, piuttosto che un film di due ore scarse.
Quel tumulto interiore che fermenta nella psiche di Madame Claude che finisce per divorare il mondo che lei stessa ha così meticolosamente creato, avrebbe meritato un racconto più specifico e sottile.
Proprio la differenza tra la prima e la seconda parte, non riesce a catturare la piena attenzione della moderna reinterpretazione del mito di Madame Claude.
Di certo resta il pregio di una perfetta ricostruzione storica del tempo, che si poggia sulle scenografie, la musica, i costumi, i riferimenti alle notizie; e la rappresentazione di un periodo turbolento, che beneficia di una macchina fotografica intelligente e di una buona sceneggiatura, ma alla fine danneggiata dalla natura apatica della trama centrale. A questo si aggiunge un’efficace colonna sonora elettronica e un montaggio ritmico che, nonostante le sbavature della narrazione nel finale, rende il lavoro piacevole e godibile nel complesso.
Alla fine ci troviamo con l’amaro in bocca. Madame Claude cerca di essere troppe cose allo stesso tempo: mescola elementi di thriller psicologico e noir intrecciato con i ricordi del passato della protagonista. Il risultato finale è un miscuglio confuso, manchevole di uno sviluppo efficace dell’introspezione di uno dei personaggi parigini più iconici del tempo.
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