Manta Ray: fiabesca denuncia di un genocidio [Recensione]

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Manta Ray è un film del 2018 di Phuttiphong Aroonpheng, che ha vinto la categoria Orizzonti nel Festival di Venezia 2018 ed è stato finalmente distribuito nelle sale italiane da Mariposa Cinematografica.

Le mante, gentili giganti del mare che volano sott’acqua, senza ledere a nessuno. Sette metri di apertura alare e un’enorme bocca per filtrare il plancton. Fluttuano in mare da millenni, lontane parenti degli squali.

I Rohingya, invece: loro esistono da migliaia di anni, ma, al pari di tante altre etnie colpevoli sono di essere diverse, sono stati perseguitati. In questo caso, dal governo birmano della sacra Aung San Suu Kyi, nobel per la pace, che nulla ha fatto. La maggior parte dei Rohingya attualmente staziona in campi profughi nel già sovraffollato Bangladesh. La loro colpa? L’essere musulmani in un paese buddista, a regime dittatoriale e militare.

La vicina Thailandia non è stata esente dal coinvolgimento nella pulizia etnica, accogliendo circa 100.000 rifugiati nei campi profughi, e, allo stesso tempo, ricevendo sulle sue coste le migliaia di morti che cercavano di scappare via mare. La marina militare thailandese, però, non è stata esente da colpe e numerose accuse di violenze, abbandono in mare, stupri e omicidi, sono state lanciate dai rohingya. La situazione ad ora non è cambiata: molti premi nobel per la pace si sono mobilitati, l’ONU si è mobilitata, così come gli Stati Uniti; eppure il genocidio non accenna a fermarsi.

Phuttiphong Aroonpheng è il regista di Manta Ray, un film thailandese, riconosciuto di interesse nazionale dal governo della Thailandia e che può contare nel ristretto cast delle vere e proprie superstar: Aphisit Ama, nel ruolo del protagonista, è un affermato DJ e attore; Rasmee Wayrana è una cantante folk popolarissima nel paese; Wanlop Rungkumjad è l’attore feticcio di Aroonpheng. Per stessa ammissione del regista, Manta Ray non è altro che il racconto del rapporto fra un pescatore (Rangkumjad), uno sconosciuto (Ama) e sua moglie (Wayrana).

Un pescatore, con i capelli tinti di biondo, trova, in un boschetto di mangrovie, in mezzo al fango, un uomo mezzo morto. Lo cura, lo porta nella sua baracca e fra i due nasce una profonda amicizia. Il pescatore lo soprannomina Thongchai, come la grande star della musica. Lo sconosciuto non parla, ma trova il modo di comunicare, con espressioni, gesti e sorrisi. Il pescatore di notte esce, col volto coperto da un berretto di lana rossa, e va a sotterrare cadaveri nel bosco. Un bosco magico, in cui, nelle notti di luna piena e senza nuvole, alcuni sassi magici risplendono di una moltitudine di colori.

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Una notte, però, il pescatore non torna. È stato preso dalla marea, dicono. Torna però sua moglie, abbandonata dal militare di marina per il quale l’aveva lasciato: e decide che lo sconosciuto si sostituirà a suo marito. Nei capelli, negli abiti, nel lavoro, nel sesso. Eppure un giorno il pescatore tornerà.

Manta Ray è un film che si muove in un territorio tecnicamente molto ostico, quello del minimalismo per sottrazione. Un’intera scuola di pensiero – quella del DOGMA 95 – ha infiammato i tardi anni ’90 e i primi ’00, ed effettivamente, esteticamente, Aroonpheng, nei gesti e nei silenzi, si rifa a Dancers in the dark di Lars Von Trier. Sebbene, Manta Ray non sia affatto un film silenzioso: la colonna sonora, che mescola minimal elettronico di Einaudi con le grandezze espressive di Richter e l’angoscia palpabile dei lavori di Glass, è stata composta dal duo francese Snowdrops, a sua volta composto da Mathieu Gabry e Christine Ot, che lavorò con Tiersen. Proprio la scelta del montaggio sonoro risulta fra i pregi tecnici del film, atta a regalare lirismo a scelte tematiche ed eventi che potrebbero risultare astrusi ad un pubblico occidentale massimalista.

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Boschi di mangrovie, di alberi secolari e tappeti di foglie morte ai loro piedi: pietre luminescenti, preziose, che si accendono di notte fra i cadaveri dei Rohingya. Boschi così fitti – illuminati solo dalle lucine dello spirito della vendetta – che perdono di senso concreto, e fanno scivolare chi vi si addentra in un mondo onirico: la favola si mescola all’orrore dell’invasione, alla rabbia del pescatore che vede che quell’alieno, quell’immigrato, si è fatto strada nel cuore della moglie che, invece, a lui, l’aveva abbandonato. E non è la rabbia che qualunque acre ometto – di qualunque parte del mondo, anche la nostra – prova quando qualcuno che disprezza riesce a raggiungere la felicità?

Nei sorrisi quieti di Ama, nel canto di Wayrana e nella desolazione interiore di Rungkumjad c’è una potenza cinematografica dei grandi attori: la purezza dell’interpretazione che trascende il cinema e sfocia nella realtà.

Il ritmo di Manta Ray è lento, ben calibrato, evocativo:

quasi noi vivessimo in prima persona – in un mondo quasi del tutto deprivato dalla parola – la rinascita e la trasformazione dello sconosciuto, che, nelle intenzioni del regista, è un narratore interno inaffidabile. La realtà è vista dai suoi occhi, distorta, ricca di favole e di magia, poverissima di dialogo: la natura è certezza, seppur con i suoi trucchetti da quattro soldi bioluminescenti; è luogo in cui rifugiarsi, un luogo a cui si appartiene quando, in quello umano, non si ha più nulla. I pesci pescati, quelli a cui vengono tolte le viscere con rudezza, loro non hanno avuto quella scelta – come i Rohingya deportatati e deprivati della loro identità.

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La cover della colonna sonora di Manta Ray

Manta Ray, brillantemente, lascia l’interpretazione – con una fiducia forse esagerata e anche un po’ malriposta al di fuori della critica specielizzata – allo spettatore; crede nella sua empatia con la tragedia umana silenziosa, col pianto disperato di un muto, che altro non sa se non urlare un mugugno.

Per troppo tempo, anche noi, qui, nel blu Mediterraneo, abbiamo lasciato che i rifugiati non avessero una voce. Per troppo tempo il Myanmar ha sottoposto i Rohingya a soprusi di ogni tipo: forse, un film potente come Manta Ray, potrà far più che scuotere gli animi.

Giulia Della Pelle
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