La seconda stagione di Foundation, tratta dalla trilogia della Fondazione di Isaac Asimov, è una nuova produzione Apple Tv, i cui episodi saranno rilasciati una volta a settimana a partire dal 14 luglio. L’episodio finale sarà disponibile a partire dal 15 settembre 2023.
La prima stagione di Foundation aveva lasciato me – e molti – a bocca aperta. Pochi sono stati gli elementi in grado di far storcere il naso, e la fantapolitica – francamente un po’ prolissa – dell’originale asimoviano era stata svecchiata in modo radicale: il personaggio di Salvor Hardin trasformato in donna-guardiano dell’insediamento di Terminus (Leah Harvey), una rinnovata sensibilità ecologica nei confronti della fauna locale – che Asimov tiene, in realtà, a farci sapere essere stata estinta da tutti gli umani su tutti i pianeti dell’impero – , un attore estremamente carismatico quale Jared Harris (che già si era confrontato con la fantascienza in The Expanse) nel ruolo di Hari Seldon, creatore della psicostoria, che ha racchiuso nel suo artefatto magico definitivo: il Prime Radiant. Ma su tutto, dal punto di vista della sceneggiatura scritta da David Goyer e Josh Friedman (l’uno, un rinomato screenwriter di fantascienza e fumetti, e, l’altro, lo sceneggiatore di robetta come Black Dahlia), spiccavano gli intrecci ambientati su Trantor, nel palazzo dell’Imperium.
Dunque, qui è doverosa una piccola digressione sinottica riguardo Foundation. Da un certo numero di millenni, così distante nel tempo che la Terra originaria risulta persa da eoni, la dinastia genetica regna sulla galassia. Una triade – Fratello Alba, Fratello Giorno, Fratello Tramonto – regna sulla galassia, tutti cloni del primissimo imperatore: Cleon I. il seggio centrale, fratello Giorno, è interpretato da Lee Pace, mentre Tramonto e Alba sono incarnati da Cassian Bilton e Terrence Mann. Il reale regnante dell’universo conosciuto è, però, Dama Demerzel. Nell’originale di Asimov, tale figura – una sorta di maestro dei sussurri di Game of Thrones, un moderno capo dell’intelligence statale – era un robot dall’apparenza maschile, mentre nella trasposizione di Goyer e Friedman ritroviamo la splendida e talentuosa Laura Birn.
I difetti della prima stagione di Foundation erano, oggettivamente, pochissimi. Dal punto di vista estetico, la serie risultava splendida a vedersi. Il design di Trantor – “il pianeta robot” – fondeva e fonde il cyberpunk più recente con quanto di bello e grandioso espresso nella trilogia prequel di Star Wars. Dal punto di vista sonoro, Foundation è figlia di Battlestar Galactica, in quanto Bear McReary è saltato di nuovo dietro allo spartito per la composizione della soundtrack. Il passo è spedito, nonostante la tara – a tratti eccessiva – degli episodi – ed eccoci, di nuovo, a rintracciare i grandi padri di questa serie gargantuesca: Il Trono di Spade, ma anche il grande classico di tutta la fantapolitica extraterrestre – Babylon 5.
La seconda stagione di Foundation segue una struttura simile alla prima. Abbiamo ancora Salvor e Gaal Dornick (Lou Lobell) impegnate nel tentativo di fuggire da Synnax, un certo numero di cloni/copie di Hari Seldon attivi qua e là nella galassia, Demerzel che continua a tramare nell’ombra, e un Fratello Giorno sempre più pazzoide e megalomane – che ha intrecciato una relazione di natura sessuale con il robot. Proprio durante un focoso amplesso, dei ninja mascherati tenteranno di uccidere l’imperatore, salvo solo per via dell’intervento di Demerzel. Nel frattempo, la Fondazione su Terminus ha raggiunto lo stadio di Culto: al fine di riunire tutti i popoli dell’Outer Reach dell’impero, gli scienziati/missionari si dilettano in interessanti dimostrazioni circensi della superiorità tecnologica della fondazione stessa – promettendo un netto miglioramento della vita degli sciancati ai quali sono in visita. Fra le nuove aggiunte al cast, ci sono proprio due missionari della “chiesa dello spirito galattico”: Poly (Kulvinder Ghir), un anziano che ebbe l’onore di incontrare Hari Seldon dal Vault quasi cent’anni prima, e la thespis Fratello Constant (in realtà una donna), interpretata da Isabella Laughland. Altra aggiunta degna di nota (almeno, all’inizio…) è la sorprendente promessa sposa di Brother Day: costui, conscio della manomissione operata sul corpo di Cleon I, riconosce la necessità di aumentare il patrimonio genetico della dinastia, sposando, dunque, la regina del Dominio delle Nuvole – la triste, dimessa, amareggiata, Sareth (Ella-Rae Smith). L’aggiunta al cast che, però, spicca maggiormente, è quella del leggendario attore Ben Daniels, che interpreta Bel Riose, un eccezionale generale della flotta imperiale attualmente in prigionia per alto tradimento.
Purtroppo, i bassi di Foundation II ricalcano gli abissi peggiori del primo capitolo: la recitazione sempre sotto alla media di Lou Lobell (che possiamo tranquillamente definire la Jon Snow di Foundation), e una scelta spesso infelice di registro nel parlato. Per tornare a fare paragoni con gli illustri predecessori, fra i punti di forza di Game of Thrones c’era la scelta di un registro iperrealistico, che era perfettamente coerente col materiale prodotto da George Martin: sconcerie, parolacce, reazioni di getto, urla, grida, frasi sconnesse – piccolezze che contribuiscono alla tridimensionalità di un personaggio. In Fondation II si perde l’aura di sempiterna grazia e mito-della-creazione che era presente nel primo capitolo, ma non si guadagna in realismo, e lo spettatore è continuamente costretto ad utilizzare la sospensione dell’incredulità per credere che, nel trentamilesimo anno o giù di lì, le persone comunichino veramente come in un cartone animato di NickelOdeon. Solamente le interpretazioni eccezionali degli attori di punta – Lee Pace, Ben Daniels, Leah Harvey la dolcissima Laughland, e chiaramente Laura Birn – riescono a rendere gradevole le sezioni di Foundation II puramente basate sul dialogo. Allo stesso tempo, però, Foundation II risulta essere una meraviglia per occhi ed orecchie: il comparto sonoro è degno di un cinema IMAX, e il costume design di personaggi come Demerzel riceverà sicuramente una candidatura ai Golden Globes.
Nella seconda stagione, infatti, viene concesso di esplorare ulteriori pianeti della galassia dell’impero, e nuovi design di astronavi, di civiltà remote regredite al paleolitico, vengono rilasciati. Un sicuro passo in più è dunque questo: il mondo televisivo inizia ad acquistare una sua forma, e ad uscire dagli abissi claustrofobici di Trantor. Anche grazie all’aggiunta dei Mentalics, un bagliore di fantasy classico dà una svecchiata alla fantapolitica, e fornisce – finalmente – un po’ (poco, eh) di spessore al personaggio di Gaal Dornick, francamente abbastanza inutile sino ad ora, se non per l’aver generato Salvor Hardin. La cervellosità della prima stagione, è, però, ancor più esacerbata nella seconda: le mille incarnazioni di Hari Seldon sono impossibili da seguire, e lo spettatore si limita a lasciar fluire la storia con curiosità più o meno intensa riguardo tale storyline.
SPOILER ALERT
Ancora, come nella prima stagione, Demerzel ruba la scena. Vera protagonista, e vera leader dell’Impero, di lei si scopre la vera origine, con alcune interessanti digressioni riguardo la sua eterna infelicità, e la sua necessità di aderire al culto Luminista. Più umana di molti umani, è una cantastorie privata della sua chitarra, dei suoi abiti di scena, ed è poco più di un oggetto rancoroso nelle mani della dinastia genetica. Unica creatura vivente (o meno?) che abbia idea di che fine abbia fatto il pianeta di origine dell’Umanità, che giocherà sicuramente un ruolo strumentale nella terza stagione. Per tale storyline, Goyer&co si sono ispirati ad un altro classico della space opera: Hyperion Cantos. L’eterno scontro fra macchine ed umani è qui risolto nella figura di Demerzel, che soffre come una donna in catene soffrirebbe, ma è incapace di realizzare la sua vendetta. La trasformazione in donna del personaggio originale fornisce peraltro spunti non indifferenti riguardo la schiavitù eterna del genere femminile, l’oggettificazione di un bellissimo corpo nudo – mentre la sua mente, ancora integra, piange lacrime disperate.
L’ultimo grande classico modero di fantascienza è Dune di Denis Villeneuve. Ogni paragone con tale lavoro, però – che ricalca la narrazione mitologico/evangelica del libro – è privo di senso: Foundation è una storia raccontata in accordi maggiori, grandiosa e wagneriana, è musica sinfonica e non grida stridenti di vermi delle sabbie. La seconda stagione, dunque, è poco meno godibile della magnifica ouverture, ma fornisce alcuni spunti interessanti che faranno ben presagire per la terza, ed alcune interpretazioni memorabili. L’aggiunta di alcuni personaggi risulta alquanto infelice, ma funzionale alla storia narrata.
Ci vediamo fra altri cento anni per Foundation 3, e dama Demerzel sarà ancora lì, a ricordare a tutti la caducità della vita umana.
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