House of the Dragon: tra continuità e radicalizzazione

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A meno di un mese dalla conclusione della prima stagioen di House of the Dragon, analizziamo la nuova serie HBO, stretta tra la necessità di cercare il successo battendo strade già percorse e quella di innovare

Sul piano della serialità televisiva il passaggio dalla stagione estiva a quella autunnale è stato caratterizzato da un exploit del genere fantasy, che ha visto il darsi battaglia tra Rings of Power, la serie tratta, con tutti i problemi del caso, dalle opere di J.R.R. Tolkien e House of The Dragon, il prequel del pluripremiato Game of Thrones basato sul libro di George R.R. Martin, Fire & Blood.

Al di là di quello che possa essere il raffronto tra due prodotti televisivi solo all’apparenza simili ma in verità radicalmente diversi, sia per impostazione narrativa che per gli sforzi produttivi messi in campo rispettivamente da Amazon e HBO, è innegabile come sia la critica che il pubblico abbiano guardato con notevole interesse ai due prodotti, analizzandone le puntate settimana dopo settimana.

Per quello che riguarda House of the Dragon, uno degli aspetti più interessanti è il rapporto che questo prequel intrattiene con la propria serie madre, stretta tra la volontà di mantenere una continuità che sia tanto visiva quanto narrativa e la necessità di innovare, provando a creare un prodotto che non venisse percepito come una copia sfocata dell’originale ma che potesse approfondire e talvolta radicalizzare alcuni dei temi portanti di Game of Thrones.

Continuità e tradizione

house of the dragon hbo

Il primo fil rouge tra House of the Dragon e Game of Thrones lo troviamo subito nella scelta della sigla. Il tema musicale è sempre quello composto da Ramin Djawadi per la serie madre e si protrae per una durata pressoché identica all’originale. Il senso di familiarità che questa scelta produce è amplificato non solo dalla iconicità della musica ma anche dalla scelta delle immagini, che questa volta si limitano a riprodurre, seguendo lo stile della sigla originale, Approdo del Re, mostrandone le strade insanguinate, un modo neanche troppo velato per dire che il sangue scorrerà a fiumi e che il tema del tradimento sarà centrale in quello che vedremo.

In questo caso le immagini della sigla hanno un riferimento del tutto interno alla serie, riproducono il modellino che Viserys costruisce nella prima parte della stagione e che funge da viatico per avvicinare il personaggio a quello di Alicent Hightower, dando il via alla catena di eventi narrati lungo queste prime dieci puntate. Così facendo viene meno il carattere propedeutico che possedeva la sigla della serie originale, non solo un immergersi nelle atmosfere di Westeros ma anche aiutare lo spettatore a comprenderne la geografia e dunque i rapporti di potere e gli spostamenti che i personaggi effettuavano, non solo tra una puntata e l’altra ma anche all’interno dello stesso episodio.

Un espediente di questo tipo era necessario, in Game of Thrones, in quanto il mondo in cui lo spettatore si muoveva era del tutto nuovo e il racconto era assolutamente corale. In House of the Dragon invece vengono meno entrambi questi fattori, non solo lo spettatore ha già familiarità con l’ambientazione, ma il racconto non è più corale come lo era il primo, le vicende ruotano tutte attorno alla famiglia Targaryen, le location utilizzate, come Harrenal, Roccia del Drago e Approdo del Re, sono spesso quelle della serie madre e non così numerose da ritenere necessaria una loro sottolineatura geografica.

Questa scelta conduce però lo spettatore ad un forte senso di spaesamento quando questi si trova difronte a due delle trame principali, quella relativa alla famiglia Velaryon nelle Stepstones e quella dei disordini nel Driftmark; il problema è lo stesso in entrambi casi, trattandosi non solo di location nuove ma soprattutto di luoghi che non vengono mai citati come parte attiva nelle dinamiche di Game of Thrones, non possono godere dell’effetto della sigla della serie principale e dunque rimangono vaghe per tutto il corso della stagione.

Il secondo segno di continuità è dato dall’aspetto visivo: dalla scenografia, ai costumi, fino alla fotografia, tutto rimanda alla serie principale. Il dato più interessante che possiamo qui sottolineare sono le location.

Quella di Roccia del Drago è rimasta sostanzialmente immutata, con l’iconico tavolo a mappa che viene spostato nella sala del trono per dare modo alle scene a sfondo politico, maggiormente dialogate, di avere più attori attorno e uno spazio che permetta di muoversi meglio, dunque di avere anche una gamma più vasta di possibilità in sede di regia.

L’espediente poi di illuminare il tavolo con la brace ardente ha lo scopo di rinnovare un oggetto proveniente dall’immaginario collettivo della serie madre e di presentarcelo in una nuova veste dotandolo di un tocco di magia ulteriore, a testimoniare come, trovandoci in un tempo antecedente a quello di Game of Thrones e idealmente, almeno in alcuni suoi punti, più puro e meno cinico, non siano andate perdute molte conoscenze che nella serie madre andavano a costruire l’aspetto più prettamente mitologico della storia.

Differente è invece il discorso relativo ad Approdo del Re, qua la strategia è quella di puntare sull’effetto nostalgia e giocare con lo spettatore a scovare i cambiamenti. Dalla panoramica della città quello più importante è dato dalla Fossa del Drago, luogo distrutto e teatro degli ultimi atti di Game of Thrones, rinasce qui come edificio a sé stante, centralissimo per le vicende della prima stagione. La Fortezza Rossa, altra storica location, rimane invece inalterata e il gioco è tutto nei rimandi visivi alle scene cardine della serie madre, come la scena della masturbazione di Aegon, girata nella stessa location e con le stesse inquadrature di quella del suicidio del terzogenito di Cersei.

La modifica più radicale, nonché quella più importante, è quella apportata al Trono di Spade. La descrizione che George R.R. Martin ne dava sui libri è sempre stata considerata, tanto dall’autore quanto dagli showrunner di Game of Thrones, come decisamente più spaventosa della sua versione televisiva, la cui raffigurazione, divenuta iconica al disopra della serie stessa, doveva piegarsi anche alle esigenze di un set contenuto.

Un ulteriore versione del trono, più vicina alla sua controparte cartacea, era apparsa, qualche anno fa, in una illustrazione inclusa nei calendari ufficiali della saga e pubblicata, da Martin stesso, sul proprio blog. Quest’ultima illustrazione vedeva la seduta ergersi alla fine di una lunga scalinata costellata di lame appuntite, rendendo l’immagine del trono stesso molto più cupa.

Gli scenografi di House of the Dragon non possono non aver tenuto in considerazione questa illustrazione nel momento in cui si trovarono a ripensare alla sala del trono con la possibilità di stravolgere alcuni elementi ma con la necessità di mantenere inalterato lo scheletro della sala stessa. La soluzione adottata è stata quella di circondare il trono con una serie aggiuntiva di lame e di renderlo meno confortante e più tagliente. Nella seconda parte di questo articolo proveremo a spiegare perché questa scelta non rappresenta solo un ammiccamento ai fan della saga letteraria, ma trova il suo senso in una precisa volontà di sottolineare la predominanza dell’aspetto politico per l’economia generale della serie.

Concludiamo invece questa prima parte sottolineando un ultimo elemento di continuità con la serie principale, quello del ritmo della narrazione. La struttura che ci troviamo difronte è quella classica di una serie HBO, dieci puntate da poco meno di un’ora ciascuna con il clou narrativo posto sulla nona e la decima lasciata alla preparazione degli sviluppi futuri. House of the Dragon, da questo punto di vista, non rappresenta un’eccezione.

Anzi, sfrutta al meglio l’alternanza tra puntate dense di eventi e puntate preparatorie costruendo sapientemente un racconto politico senza la necessità di far predominare l’azione o il ritmo incalzante ad ogni puntata. La lezione è presa dalle sezioni centrali di Game of Thrones, quando, lontana dalla conclusione quanto dal suo inizio, la vicenda può concentrarsi sui dialoghi e gli intrecci, giocando più con il thriller che con l’action. In questa serie prequel tutto è retto a meraviglia, complice anche un cast, su cui svetta tra tutti il Viserys di Paddy Considine, in stato di grazia e che riesce a mantenersi costantemente in parte.

Radicalizzazione: politica e abbandono del fantasy

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Il rischio, per quanto visto finora, è quello di avere tra le mani una copia carbone dell’originale che, per evitare di fallire sul piano della risposta del pubblico e della critica, rinunci a sperimentare nuove forme per raccontarsi.

Sebbene gli elementi di continuità sopra analizzati possano essere giustamente interpretati anche sotto questa prospettiva, notando come spesso paghi sul piano dell’audience dare ai fan un prodotto a loro familiare, considerarli unicamente secondo questo scopo risulta quanto mai riduttivo. C’è anzi da sottolineare come altri aspetti hanno subito modificazioni importanti e che alcune tematiche cardine si sono, per diversi fattori, radicalizzate. 

La prima importante novità è data dal ruolo attribuito, all’interno della vicenda, dell’elemento fantastico. In Game of Thrones, fino alle ultime due stagioni, la trama proseguiva su due filoni che, per quanto si intrecciavano, rimanevano in realtà sempre paralleli senza mai intaccarsi veramente in maniera reciproca. Da una parte avevamo l’elemento politico, la lotta per arrivare a sedere sul trono di spade e dall’altra l’elemento fantastico, la guerra contro gli estranei, prima annunciata, poi preparata e infine divenuta attuale.

Per quanto a combattere questo conflitto per la vita stessa fossero personaggi invischiati anche loro nelle vicende politiche di Westeros, i due conflitti rimanevano separati; solamente con le ultime due stagioni, con la necessità di tirare le fila delle trame aperte, la guerra contro gli estranei inizierà a giocare un ruolo anche nello scacchiere politico, pesando sui pretendenti al trono.

In House of the Dragon non solo manca del tutto un filone propriamente fantasy, non c’è in tal senso una guerra contro un nemico sovrannaturale da combattere o minacce che provengono dalla magia o dagli dei, ma l’elemento fantastico è sempre sottomesso al momento politico.

Per capire l’importanza del rapporto tra il politico e il fantastico basti pensare, in tal senso, alla rivelazione, fondamentale nel misunderstanding che porta, sul finire della serie, allo scoppio della Danza dei Draghi, che vedremo a partire dalla prossima stagione, per la quale Aegon il Conquistatore avrebbe conquistato i Sette Regni con l’obbiettivo di far trovare pronto il mondo degli uomini nel momento in cui gli Estranei sarebbero scesi dal profondo nord. In questa scoperta, che poco aggiunge alla trama e che potrebbe apparire come un mero ammiccamento, neanche troppo velato, alla serie principale, ci viene detto che l’elemento politico per eccellenza, ossia l’unione dei Sette Regni sotto un’unica bandiera, quella dei Targaryen, è in realtà uno strumento atto a risolvere il fantastico.

Il Viserys di Paddy Considine nella serie persegue esattamente questo scopo, un vero e proprio atto di fede al quale dedica tutte le sue forze e che tramanda a Rhaenyra nel momento in cui la proclama sua erede. Anche la figlia raccoglierà questa sacra missione dopo la morte del padre, tentando, fino all’ultimissimo atto della serie, una pacificazione che possa tenere unito il regno insieme a coloro i quali lei considera traditori.

In tale ottica il vero tradimento nei confronti del defunto Viserys e del reame è compiuto dal ribaltamento nella serie di questa prospettiva. Non essendoci più un nemico sovrannaturale contro cui compattarsi e che possa rappresentare un obbiettivo comune ai protagonisti, l’elemento fantastico finisce per essere piegato alla volontà del tema politico.

In House of the Dragon il fantasy è rappresentato dai draghi. Le creature alate, simbolo della dinastia Targaryen, mantengono il carattere divinatorio che avevano nella serie principale, rappresentando la predestinazione al comando dei loro possessori, qui declinata in un ambito prettamente politico.

L’abilità di cavalcare un drago e la possibilità di reclamarne la proprietà diventano strumenti in grado di sbilanciare le forze in campo e il conteggio che Daemon fa dei draghi dalla loro parte nell’ultima puntata della stagione è assolutamente comparabile a quello che si fa delle truppe di un esercito.

Se la grande intuizione di George R.R. Martin era stata quella di donare al fantasy epico un aurea di realismo, riducendo al minimo il ruolo della magia e rifiutando una distinzione netta tra buoni e cattivi, House of the Dragon aggiunge a questa missione un tassello ulteriore, la definita sottomissione del fantastico al politico. Il risultato è quello di trovarci davanti più ad un dramma a tinte shakespeariane che ad un fantasy, un thriller politico medievale ambientato in una lontana regione della quale non abbiamo mai letto sui libri di storia, più che su un altro mondo tout court. 

Abbiamo lasciato per ultima la tematica principale della serie, sulla quale siamo sicuro molto è già stato scritto e su cui già la produzione deve aver puntato molto, ossia il ruolo assolutamente centrale delle donne.

Non è in verità un elemento nuovo, già Game of Thrones ci aveva abituato ad avere, al centro delle vicende, protagoniste femminili forti, si pensi a Sansa, che esce dalla serie madre come regina indipendente del nord, a Cersei, intorno alla quale ruota tutta la trama politica delle ultime stagioni, a Daenerys, il personaggio che maggiormente trova spazio nell’atto conclusivo della storia, ad Arya, a cui viene affidato il compito di sconfiggere il Re della Notte.

Insomma, Game of Thrones, sapeva come porre al centro della storia tutto un universo femminile, ma mai era veramente scesa nel trattare la questione di genere in maniera diretta. House of the Dragon ne fa invece la sua tematica principale, non si limita a porre le donne in situazioni di potere, ma fa della loro presenza in quelle posizioni il nucleo problematico che scatena gli eventi.

La Danza dei Draghi non inizia per un mero gioco di potere interno alla famiglia Targaryen, ma comincia perché al potere è destinata Rhaenyra, perché Viserys ha nominato come suo successore una donna. La stessa contrapposizione tra Rhaenyra e Alicent non è una semplice contrapposizioni tra personaggi femminili, come poteva essere il rapporto tra Daenerys e Cersei, ma tra chi vive scegliendo da sé il proprio destino, legando dunque il personaggio a tematiche propriamente femministe, come l’indipendenza dalla famiglia e un esplicitio e riconosciuto ruolo di potere e chi invece opera sotto una società prettamente patriarcale.

Basti vedere le numerose scene in cui Alicent si rapporta con il padre, Otto Hightower, interpretato magistralmente da Rhys Ifans e quella, che siamo sicuri diverrà iconica, con la Rhaenys di Eve Best, in cui questa invita la giovane ad abbandonare il suo rapporto di sudditanza verso le figure maschili della sua vita, il padre, il re che è stata costretta a sposare, i figli con le loro ambizioni politiche.

House of the Dragon convince proprio per questo, non solo perché comprende che cosa ha reso veramente grande Game of Thrones, non le morti inattese o le scene di violenza e di nudo, ma la capacità di rinnovare un genere partendo dallo scardinamento dei suoi presupposti inamovibili ed ha proseguito per quella strada, ricordandoci, forse, che la fedeltà ad un’idea è l’unico valore da perseguire.

Marco Sensi
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