House of Gucci è un film di Ridley Scott, scritto con Becky Johnston, starring Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Jeremy Irons e Al Pacino. E’ in uscita nelle sale italiane il 18 dicembre 2021. E, chiaramente, narra la discesa infernale di Patrizia Reggiani che porterà all’assassinio del marito Maurizio Gucci.
I’ve never been happier my whole life!
Sono le parole pronunciate da Maurizio Gucci alla moglie, Patrizia Reggiani, che vuole convincerlo a tornare in grembo alla toscana, aspra, acida famiglia originaria. Una famiglia che, nell’affresco di Ridley Scott, è verdognola e amare come il cavolo nero cotto troppo poco.
Mi si perdoni il tentativo parodistico, ma House of Gucci non è forse molto più di questo. Cioè sì, forse qualcosa in più c’è. Il materiale finale è diretto al grande pubblico, un pubblico che ha una precisa idea in mente di come l’italianità sia. Semmai sia effettivamente esistita una cosa simile.
Tom Ford, CEO per anni di Gucci e stimato regista (forse sono di parte, ma Nocturnal Animals è uno dei film più belli degli ultimi dieci anni), ha definito House of Gucci una versione da due ore e trentasette minuti di Saturday Night Live. Uno show televisivo. Non potrei essere più d’accordo: House of Gucci è due ore e trentasette minuti di stand-up comedy (che sia stantia o meno è una scelta che viene lasciata al fruitore) che gioca su come noi italiani siamo visti dall’occhio americano, di certo non particolarmente raffinato rispetto al nostro.
Così, come tutte le leggende hanno un fondo di verità, così è vero che la famiglia Gucci era sicuramente folkloristica. E che Maurizio, unico figlio dello stimatissimo Rodolfo (Jeremy Irons), interpretato da Adam Driver, fosse uomo non troppo di polso, era cosa nota nella cronaca rosa degli anni ’90. Che Patrizia Reggiani (Lady Gaga, al secolo Stefani Germanotta) fosse e sia ancora un po’ svitata, è indubbiamente vero. Ma l’intero impianto da finta tragicommedia scivola così presto nel ridicolo che lo spettatore, esattamente come Tom Ford, soprattutto se proviene da questo angolo di Mediterraneo, non può far altro che farsi grasse risate.
House of Gucci, trama
La storia è ben conosciuta. Nel 1978 Maurizio, figlio negletto e dall’animo gentile di Rodolfo – disegnatore del famoso fazzoletto rosso – , autoritario socio alla pari col fratello Aldo (un abbondante Al Pacino), incontra Patrizia Reggiani ad una festa. È una donnina di bell’aspetto, curata, sculettante, con un giusto quantitativo di seno ben in vista (voglio dire, cos’altro sanno fare le donne italiane se non sedurre?), figlia di un imprenditore nel campo dei tir – trasporto su gomma. Che lei definisce elegantemente “ground trasportation”.
Gli anni ’70 milanesi sono patinati, ricchi, scintillanti, nonostante il piombo: Maurizio si innamora follemente di Patrizia, nonostante lei sia una povera ignorante che non ama leggere e lui un quasi arrembante avvocato, il padre lo caccia di casa e lui chiede asilo al suocero. Ed effettivamente è durante il periodo d’oro di lavoro a contatto coi tir che Maurizio dice di non essere mai stato più felice. Ma Patrizia non ci sta: vuole di più, vuole tutto. Vuole che Maurizio riprenda i contatti col padre, almeno con lo zio Aldo (Al Pacino) e il cugino Paolo (Jared Leto, bravo e irriconoscibile). Un drammatico giro d’eventi porterà Patrizia ad assoldare un sicario – un morto di fame qualsiasi, in realtà – per far fuori Maurizio dopo aver saputo che aveva sposato un’altra donna, Paola Franchi (Camilla Cottin).
Fare una commedia nera, basata su fatti reali, è sicuramente un’operazione difficilissima. House of Gucci è un film ambivalente, che vortica come il maelstrom della lussuria patinata che si muove a suon di sarcasmo, e un film terribilmente brutto, in cui l’intera razza italica (che, vi ricordo, sceneggiatori, non esiste: siamo sessanta milioni e più diversificati di molti stati europei) viene rappresentata nella forma dei seguenti personaggi:
1)Patrizia. Scaltra, abbastanza intelligente ma semi analfabeta, amante delle fattucchiere ma arrembante. Non ha lavorato un giorno in vita sua e mai lo farà.
2)Maurizio. L’omo italico per eccellenza. Come ho già detto, con meno spina dorsale di un polpo affugat a mare. Sorseggia caffè, ammicca da dietro gli occhiali Carrera e cammina felpato nei suoi mocassini disegnati dallo zio e dal padre. È molto sensibile al fascino femminile. Ha una buona educazione, dice di sé di essere poco toscano – che significa, poi? – ma possiede lo stesso sapore del pane sfornato a Firenze. Alcuno.
3)Rodolfo (Jeremy Irons). Patriarca algido, altero, elegantissimo. Ritratto d’un’epoca. Vuole il sincero bene per il figlio e lo raggiunge in qualunque mezzo. Il padre etico del primo dopoguerra secondo gli Americani.
4)Aldo. Lo zio scemo.
5)Paolo. Il cugino scemo. Anche il padre Aldo lo riconosce. “My son is an idiot” è la frase più cara che gli viene rivolta da Aldo. Disegna vestiti dai colori improbabili e dalle forme scopiazzate al padre e allo zio. Prova a lanciare PG, il suo brand.
6)Pina (Salma Hayek, bella nonostante l’outfit da gattara). La fattucchiera. Se siete nati negli anni ’90 ne avrete viste tantissime simili nei canali locali dopo le tre di notte. Non un’esclusiva italiana.
7)Domenico De Sole (Jack Houston). L’unico sano di mente in un mondo di pazzi. È lui che porta avanti Gucci mentre Maurizio, Patrizia, Aldo e Paolo pensano a fare la guerra coi soldatini. La vera figura storica è stata CEO e presidente di Gucci assieme a Tom Ford. Il buonsenso perduto.
Le voragini nella sceneggiatura di House of Gucci
Dato questo platter di personaggi, il materiale umano per scrivere una commedia plautina è veramente abbondante: l’impianto frenetico e coloratissimo che ci riporta a American Hustle di David O’ Russell, è in realtà Ridley Scott che cita se stesso da All the Money in the World. Schemi vengono riproposti, climax e anticlimax, e la sua regia è scolastica e noiosa. Noiosa: perché di divertissement, con attori simili sotto mano – parliamo quasi del meglio del meglio in circolazione: il lanciatissimo Driver, la duttile Germanotta, Al Pacino, Jared Leto – se ne poteva far tanto. Ha forse voluto Scott far sì che fosse la storia a parlare? Che ci fossimo noi, lettori di riviste scandalistiche e sorseggianti espresso (guai a chiamarlo caffè, è una cosa diversa) dietro la cinepresa? House of Gucci ondeggia fra l’Aulularia di Plauto e un tentativo poco riuscito di grottesco pulp: ma Scott & Friends non sono Kubrick & Friends e mai lo saranno, a questo punto.
È incredibile la capacità di Ridley Scott e di Becky Johnston (acclamata sceneggiatrice di commedie romantiche degli anni ’90 con Barbra Streisand) di trasformare persone reali in macchiette. Essendo socialitè, i personaggi sono sempre stati sotto l’occhio dei paparazzi milanesi, newyorchesi e via dicendo: ma si trattava di persone reali. Con i loro difetti. Con i loro slanci di umanità. I loro traumi, le loro tragedie personali. Il loro amore.
Sono pochi i momenti in House of Gucci che fanno pensare a Patrizia e Paolo, più di tutti, come a persone vere. E l’unico motivo non è la scrittura dei loro personaggi, ma la recitazione. La delicatezza con cui Lady Gaga accarezza le pagine dell’album di foto di un matrimonio finito, le sue lacrime sincere di fronte all’esser stata lasciata senza apparente motivo. Una spiegazione la meritava? Probabilmente. La riconciliazione fra Aldo e Paolo è, ugualmente, scritta malissimo e surreale: un uomo anziano che dopo un anno di prigione non vuol far altro che fare il papà. Spalla contro spalla. Non una discussione chiarificatrice. La bacchetta magica alimentata dalla toscanità dei Gucci tutto può. Le vacche sacre di Aldo tutto possono. L’impacciato Paolo, che Jared Leto disegna come un caratterista, fa, molto semplicemente, tenerezza.
Aldo è alfine l’imperatore delle macchiette, ancor più del figlio Paolo, stempiato e un po’ toccato. Accarezza le vacche, si bea di fare vita pastorale e bucolica in Valdichiana, pagando le maestranze che producono il cuoio pochi centesimi all’ora e scroccando pure il pranzo. Fingendo che gli straccioni sporchi di letame siano la sua vera famiglia. Un ricco Epulone? Un Trimalcione? Attorno a cui ruotano poveracci che si affannano per possedere la pentola d’oro?
La sceneggiatura di House of Gucci sembra dunque rifarsi – male, malissimo – al teatro latino classico e ai suoi topòi. Male, malissimo, perché letti ad un anglofono che possiede una mentalità ed un sarcasmo completamente differenti: su un peplo ben stirato e bianco, è un patchwork di tweed.
La sensazione di trovarsi su Saturday Night Live avvertita da Tom Ford in House of Gucci deriva probabilmente anche dall’affettata e falsa attitudine dei personaggi ad essere perfetti, compunti, ben vestiti, pronti a lanciare una punchline, in qualunque momento. La fotografia di Dariusz Adam Wolski (collaboratore di lunga data di Scott) si limita a descrivere un mondo patinato di cosce ben depilate, gessati ottimamente stirati, strano arredamento e quadri di Klimt. Non c’è in alcun modo un piano di lettura differente, una stratificazione del materiale: tutto è farsa, tutto è standup comedy. Tutto è pantomima, attori danzanti su un piccolissimo palcoscenico di paese. L’esser paesani bevitori di caffè è ben incarnato da Pina, che viene perennemente malvestita da Janty Yates (ll Gladiatore. State attenti, che fra qualche mese Scott riuscirà a rovinare l’eredità), che concia Salma Hayek come una Patrizia più povera. Ma che sostanzialmente ne condivide l’anima da semianalfabeta che sbraita per ottenere riscatto sociale.
I temi mancati in House of Gucci
La storia, in sé, è potente. Poteva essere una storia di riscatto sociale, di rabbia e delusione, di discesa nella pazzia, di come nasce un nuovo amore e muore uno vecchio, e, infine, un turbinio nel maelstrom finale della gelosia; invece ciò che Scott & Friends ci consegnano è, nell’ordine:
- Sesso in prefabbricato;
- Sesso orale fedifrago in casa;
- Sesso nella vasca idromassaggio;
- Sesso di terza età per Aldo con giovani modelle;
- Niente sesso per Paolo e la moglie canterina (è scemo, gli scemi non si congiungono carnalmente);
- Molto caffè chiamato “espresso”;
- Vacche;
- Trenta secondi circa di Tom Ford;
- Maurizio in bici e poi il silenzio.
Il fallimento di PG come imprenditore di se stesso poteva esser poi scena madre: caricata del giusto pathòs, epitome della crudeltà della famiglia Gucci alimentata dall’avarizia di Patrizia. Chiaramente ciò non si realizza.
House of Gucci, invece, esplora superficialmente e in modo estremamente trash e a tratti kitsch, le stesse tematiche delle soap opera brasiliane. E questo la dice lunga della stima che Scott & Friends (che s’è pure arrabbiato dopo le rimostranze della famiglia di Aldo, quello vero) hanno per gli abitanti del nostro paese. Un branco di vacche al lavoro, timidi straccioni, che però giustamente amano indulgere nel coito. Ogni tanto qualcuno mira alle stelle, ma poi arriva la quaglietta di turno e lo fa fuori. Si chiude il sipario, si tira un sospiro di sollievo. Buonanotte.
And stop being poor.
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