Men, l’ultimo lavoro di Alex Garland, più che come un mero prodotto di intrattenimento si presenta piuttosto come un horror sofisticato che, sulla scia di film come Get Out, tenta di leggere il presente raccontandolo attraverso la lente della paura. Se nel film di Jordan Peele il tema centrale era quello del razzismo, la pellicola di Garland si propone di trattare quello del femminismo dipingendo una realtà profondamente patriarcale e maschilista contro cui la protagonista, Harper Marlowe, interpretata qui da Jessie Buckley, entra più volte in contrasto.
La trama di Men, volutamente scarna anche per un film che non arriva alle due ore, vede lo spettatore seguire Harper che, nel suo tentativo di superare la morte del marito, dal quale voleva separarsi, rifugiandosi in un cottage di una piccola cittadina nella campagna inglese, viene perseguitata prima da un misterioso uomo nudo incontrato nei boschi e poi dagli abitanti della cittadina stessa.
L’ambientazione non ha una reale importanza, la vicenda potrebbe svolgersi in un qualsivoglia paese lontano dalle grandi metropoli e la scelta di ambientare gli eventi del film nell’Inghilterra rurale appare più come una mera scelta estetica, quella di giocare con gli stereotipi del genere contrapponendo la apparente amenità del luogo all’orrore che si cela sotto di esso.
Le scenografie utilizzate sono, per questo motivo, convenzionali, prive di elementi di vera novità ma perfette per costruire questa dicotomia, sottolineata sin da subito nella scelta delle scene iniziali, in cui la protagonista, e con lei lo spettatore, esplora la casa in cui sono ambientate le vicende, dipingendola come un perfetto esempio di candore ed eleganza.
La mitologia della pellicola è lasciata volutamente vaga e oscura allo scopo di contribuire alla costruzione dell’aura di mistero intorno all’intera vicenda e all’accrescimento, nello spettatore, di un senso di angoscia e straniamento necessario per l’immedesimazione nei confronti del percorso della protagonista. La scelta di utilizzare un generico culto pagano della natura, senza specificarne mai nome ed entità, è però tutt’altro che causale e strettamente legata alle tematiche affrontate.
Nel suo essere perseguitata, la protagonista di Men viene tacciata di andare infatti contro la propria natura di donna, legando questa al ruolo di moglie e di oggetto del desiderio sessuale maschile; la sua colpa sarebbe, in quest’ottica, quella di essersi allontanata da questo ideale naturale avendo espresso davanti al marito, nei flashback che ci vengono presentati, la volontà di separarsi da lui ed averne causato pertanto la morte, sia che essa venga interpretata dallo spettatore come suicidio sia come incidente casuale.
Il prezzo che il personaggio di Jessie Buckley deve pagare per espiare alle sue colpe è quello di essere costantemente braccata dagli uomini del villaggio, tutti interpretati da Rory Kinnear (il Bill Tunner negli ultimi film di 007) chiamato a dare sfumature diverse ad ogni personaggio (allo spettatore lasciamo il compito di dirimere la matassa, individuando tutti i ruoli in cui figura). Questa particolare scelta registica non snellisce solo il cast, facendo apparire un film prodotto dalla A24 come una produzione indipendente, ma in essa risiede il fulcro del senso più profondo della pellicola.
Kinnear, nelle sue camaleontiche interpretazioni, non presta solo il suo volto ad una serie di personaggi più o meno spregevoli, ma si erge a rappresentazione simbolica della mascolinità tossica, della cultura della sopraffazione e del patriarcato che vuole la donna in una posizione perennemente subalterna. In tal senso particolarmente esemplificativa è la sequenza finale, in cui i corpi di tutti i personaggi si fondono insieme, uscendo ripetutamente l’uno dall’altro e rivelando così la loro natura di entità unica.
Se tutto questo rappresenta il senso profondo dell’opera, invece la messa in scena è tutt’altro che perfetta, riuscendo solo in parte a veicolare il messaggio proposto. Non aiutano né i dialoghi, che con la loro eccessiva didascalicità negli snodi centrali dell’opera, come nella scena del colloquio tra Harper e il parroco, finiscono per riportare in maniera troppo palese le intenzioni dell’autore rendendo l’utilizzo dell’orrore quasi superfluo; né i momenti lisergici, che giocano con le simbologie della pellicola, dall’altare con il Dio Verde alle sheelana gig, le statue medievali che raffigurano donne con la vulva aperta e che si possono trovare, per quanto non frequentemente, nelle chiese dell’Irlanda e del Regno Unito.
Il risultato complessivo è quello di una pellicola che tenta di essere profonda e stratificata, senza però mai riuscirci veramente, in cui la critica sociale è centrale ma le sue tematiche appaiono sviluppate in modi goffi e raffazzonati, ma che non per questo non riesce nell’intento di essere un buon film dell’orrore, capace di turbare lo spettatore e di farlo alzare dalla poltrona con qualche dubbio in più.
Un film dunque non indispensabile, non certo il migliore di Garland, ma che saprà intrattenere non solo gli amanti del genere ma, più in generale, quelli del cinema e che forse invece avvicinerà spettatori all’horror, imbrigliato in un’aura di pochezza intellettuale e che invece può ancora dire molto a chi lo guarda.
A cura di Marco Sensi
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