Minari è un film di Lee Isaac Chung del 2019 (!), al maggio 2021 ancora non distribuito dai cinema in Italia, vincitore del premio della giuria del Sundance 2020 e il Golden Globe al miglior film straniero. La coprotagonista Yoon Yeo-jeong ha inoltre vinto la sua prima statuetta come miglior attrice.
L’Academy si è, ormai, definitivamente aperta all’Oriente – e all’Europa. Dopo Parasite, è il turno di Minari, altro film coreano, ad essere candidato come miglior film. Sebbene la statuetta sia poi stata conquistata da Nomadland – interpretato da Frances McDormand, che si riprende ciò che è suo dopo l’Oscar al miglior film mancato da Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri.
Dunque, Minari. Partiamo dal titolo: il minari è una sorta di prezzemolo acquatico nativo della penisola coreana, ottimo per la saporitissima cucina. Dunque, essendo ambientato in Arkansas, si può già intuire di cosa tratta la pellicola: la mancanza della madrepatria, fra gli altri potenti temi toccati.
Minari è firmato da Lee Isaac Chung, regista americano i cui genitori sono nativi della Corea del Sud – e, nel film, il suo giovanissimo alter-ego è il piccolo David, figlioletto cardiopatico della coppia protagonista. L’esordio registico di Chung fu felicissimo: un classico per pochi, Munyurangabo del 2007, una pellicola girata in Rwanda in lingua locale con attori non protagonisti, che attrasse l’attenzione della giuria di Cannes, del Toronto Film Festival fra gli altri.
Siamo in Arkansas, anni ’80. Una famiglia, la famiglia Yi, si trasferisce dalla California in un luogo rurale, una casa mobile, con un immenso terreno intorno. Il padre, Jacob (Steven Yeun, Gleen di The Walking Dead!) coltiva sogni rurali, ossia vuole vivere di agricoltura, fornendo prodotti coreani alla crescente comunità in USA. La moglie, Monica (Ye-ri Han) è piuttosto scettica riguardo il progetto del marito. Entrambi parlano inglese poco e male, e sono specializzati nel sessaggio dei pulcini. Come di prassi, nella grande fabbrica in Arkansas dove lavorano, i pulcini maschi sono bruciati – scartati, gettati via. I due figli, Anna e David, invece, essendo nati in USA, parlano perfettamente inglese. Vista l’occupazione a tempo pieno di entrambi i genitori e la malattia di David, la madre di Monica (Youn Yuh-jung, un’attrice coreana di lungo corso ed esperta, poco nota all’estero ma eccezionale in energia profusa) si trasferisce in Arkansas per dar loro una mano. Le cose non vanno proprio come ci si può aspettare: David è maldisposto verso la nonna, che si discosta fortemente dallo stereotipo casalingo americano – Soon-Ja non è cicciottella, non cucina la torta di mele ma strani intrugli fermentati, indossa abiti da uomo lisi del genero, si emoziona per la boxe e non capisce, ovviamente, una parola d’inglese. Nel quadretto si inserisce l’integralista cattolico, reduce della guerra di Corea, ma di buon cuore, Paul (un irriconoscibile Will Patton, fra i protagonisti di Falling Skies), col quale Jacob stringe rapidamente una sincera amicizia.
Ma, come ho già detto, le cose non andranno come ci si aspetta, perchè la vita oltreoceano è diversa, difficile: è una giungla.
Minari indaga dunque le differenze culturali fra gli immigrati, in cerca di una vita migliore, i locali – gli abitanti di quel luogo, nella persona di Paul il portatore di croce – e coloro che sono nel mezzo: la seconda generazione di immigrati, nel caso di paesi che non riconoscono lo ius soli, o di nuovi cittadini, come nel caso di David e Anna negli USA. La nonna, la signora Soon-Ja, è totalmente aliena a quel mondo: per lei, un ruscello nel giardino di casa dei Yi, è il luogo perfetto per far crescere il minari, il soffio al cuore di David si può guarire con intrugli, ed è sempre pronta a viziare i nipoti. I genitori, che portano l’intero peso del mondo sulle spalle di sessatori di pulcini, non riescono a godersi neppure un istante di serenità nella nuova casa – Monica pronta al giudizio per quella casa su ruote e la pioggia che filtra dal soffitto, distante e volutamente distaccata, e Jacob eterno sognatore ma duro lavoratore che si scontra col feroce pragmatismo della moglie. Una generazione, quella degli immigrati, che il regista Chung ben conosce, essendovi appartenuti i suoi genitori. Sebbene, dunque, l’America negli anni ’80 fosse ancora quel luogo magico oltre l’arcobaleno, la realizzazione di tale mito passa sui cadaveri di relazioni amorose una volta solide: e a molto bisogna rinunciare per divenire veri americani – bisogna, forse, uccidere il passato, e donare un tributo di sangue al Dio del riscatto sociale. Due concetti che vengono estrinsecati nel finale del film: Soon-Ja, confusa e colpevole, che si allontana dalla fattoria – lei, rappresentante il passato da distruggere, la madrepatria che così poco ha dato alla giovane coppia – e quell’incendio purificatore e distruttore allo stesso tempo. Un nuovo inizio, vero, per la famiglia Yi. Un segno dal cielo, forse, una colomba infuocata proveniente da un bidone della spazzatura.
Minari è un film soprattutto americano ed hollywoodiano nella realizzazione.
C’è tutta la fruibilità a cui siamo abituati noi spettatori occidentali: rapidi dialoghi, regia vivace, tantissima musica composta dal misconosciuto Emile Mosseri. Inquadrature ardite e ben curate: la famiglia Yi è rappresentata in modo naturalistico nel proprio vero e proprio ambiente, la casa mobile, che i bambini tanto amano e la mamma Monica tanto odia. Un luogo coloratissimo e arredato con gusto occidentale da Monica, che si contrappone al verde intenso del boschetto di minari, luogo preferito dal piccolo David. Inoltre, proprio come un film hollywoodiano, è ben calibrato, e fa del suo equilibrio la sua forza – contrariamente, a spanne, per ciò che avviene nella filmografia asiatica, che è maestra del dislivello emotivo: le scene madri si contano sulle dita di una mano, ma in generale l’attenzione è mantenuta alta dall’ottima recitazione degli attori, soprattutto della tormentata Ye-ri Han e della tenera Youn Yuh-jung. La ricerca di un pozzo, la perdita dell’acqua durante l’estate, un raccolto fruttuoso andato in fumo.
Dal comparto tecnico, Minari è un film dunque ben realizzato, ottimamente montato e sonorizzato: l’equilibrio di base della pellicola si nota anche nel sonoro e nella fotografia, in quanto nessuno dei due eclissa mai la narrazione della storia e l’interazione degli attori, semmai rafforzandola.
La forza di Minari, dunque, è nel tema trattato, ossia l’integrazione e quali sono le conseguenze, ed il prezzo da pagare, nel crearsi una vita dall’altra parte dell’oceano. Una tematica sempre attuale, sebbene Monica e Jacob non siano due rifugiati, che si riflette soprattutto nelle interazioni dei bambini coi loro coetanei – “Perché la tua faccia è così piatta?”, chiede ingenuamente un compagno di parrocchia a David. Il diverso, rappresentato con dolcezza e con ferocia. Forse è per questo che Minari è piaciuto tanto all’Academy: è un film delicato, da proiettare nelle scuole. Dopo gli eccessi lirici di Parasite dell’anno scorso, necessario era riportare la filosofia degli Oscar nei giusti binari.
Da vedere e comprendere e ricordare, e calare nel nostro piccolo, difficilissimo, mondo europeo.
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