Storia di un Matrimonio è il nuovo film di Noah Baumbach, acclamato regista già di Frances Ha, uscito nel 2019 per Netflix e già detentore di numerosi premi di settore.
Sai, in una relazione fare sesso è un po’ come parlare. E parlare è un po’ come fare sesso. Quando conosci troppo bene una persona, tutto assomiglia a tutto.
In una frase confidata fra le lacrime alla sua agguerrita avvocato divorzista, Nicole, ancora moglie di Charlie, racchiude l’essenza dello stare insieme. Che l’umano sia monogamico è dibattuto fra gli antropologi, ma il film di Baumbach dà per scontato che la relazione amorosa della vita sia una sola – e che non ci sia scampo, tutti, prima o poi, cadranno fra le trame non dell’Eros della passione, ma quello dell’abitudine.
Nicole (Scarlet Johansson) è un’acclamata attrice di teatro sperimentale – il teatro sperimentale di suo marito Charlie (Adam Driver), regista e sceneggiatore. Quest’ultimo è uno che, per ammissione della moglie, si è fatto da sé: è venuto su dal nulla, da “abusi e alcol”, dall’Indiana è venuto a New York e c’è rimasto. L’abitudinarietà di Charlie è, a detta della moglie in molteplici occasioni, proprio ciò che ha distrutto il loro matrimonio: nel tarpare le sue aspirazioni losangeline di cinema, lui l’ha racchiusa in una gabbia dorata. Ma lui l’ha resa ciò che è: una grande artista. A detta di lui.
Hanno un figlio di otto anni, Henry, che entrambi adorano: Charlie ama fare il padre, ama i capricci, Nicole ama giocare con lui sforzandosi di non dimenticare la sua giovane età. Henry ha qualche problema nell’apprendimento e nel linguaggio, ma roba di poco conto. Nella loro compagnia di teatro figura un gran numero di personaggi coloriti: Ted, Mary Ann, stagisti vari, che Charlie tratta come gente di famiglia.
Un giorno, durante l’ennesima litigata, Charlie ammette di non sapere il numero di telefono della moglie – e, successivamente, di non aver mai fatto caso a di che colore avesse i capelli. Nicole, così, lo lascia, e se ne torna a Los Angeles, per girare il pilot di una serie tv in cui potrà, se il progetto prende vita, mettere mano anche alla sceneggiatura e alla regia. Si porta via Henry. Da lì, in un, appunto, teatrale crescendo di schermaglie, ciocche di capelli che cadono, sguardi pieni di rammarico, tagli e ferite vere e figurate, Charlie e Nicole divorzieranno.
Storia di un Matrimonio è una dissertazione sulle verità in cui tutti crediamo ciecamente dopo aver vissuto per tanto, tantissimo tempo, sotto la lente d’ingrandimento di un’altra persona.
Che conosce ogni nostro turbamento, ogni nostra paura. Quando di colei/lui – quello che ci disturba il sonno, che finisce le nostre frasi più inaspettate come se ci leggesse nel pensiero – tutto sappiamo: di ciò si è ingannata Nicole, di ciò si è ingannato Charlie. Lui, che non ha mai creduto nel sogno cinematografico di lei; lei, che si è sempre creduta piccola, in confronto a quel gigantesco self-made man – e che non ha mai fatto nulla per emergere. Lei, che per il mondo del teatro era una gigantessa, credeva di essere solo una pedina nelle mani di lui. Storia di un Matrimonio non riduce alla scarna ossatura le dinamiche di coppia, ma eleva le più comuni ad universali.
Strane dinamiche nascono e strani nodi di corda si intersecano quando ci si è scambiati tanto quanto Nicole e Charlie: loro, che hanno lavorato assieme per tanti anni, tanto hanno creato. Loro, che dalla sceneggiatura e dalla macchina di presa di Baumbach, vengono rappresentanti come due professionisti: il rischio c’era, e anche concreto, dato l’effettivo script del film, che Nicole venisse plasmata come una dilettante che si limitava a tenere in caldo sogni di gloria e di walk of fame; Baumbach, nel rappresentarla come una persona strutturata, conscia della sua poetica e conscia di essere madre, di essere stata sposa (una volta che lo si è, lo si è per sempre) e consapevole del suo essere artista. Nei dialoghi con un’altra donna che potrebbe figurare sulle copertine di Cosmopolitan, la sua avvocatessa Nora Fanshaw (una Laura Dern fuoriclasse: ancora bellissima a 52 anni, duttile e perfettamente calata nel personaggio), traspare una fragilità sì umana, ma degna di essere considerata trasversale e non solo appartenente alla metà “debole” dell’umanità. Le sue convinzioni riguardo il marito, vere o meno, sono quelle, tutte comuni, che tutte noi abbiamo vissuto per una volta nella vita: retaggio di una società cristiano-giudaica patriarcale o forse no.
La sceneggiatura di Baumbach, che, ammettiamolo, nel suo essere naturalistica e talvolta anche documentaristica con garbo, rappresenta il punto di forza di Storia di un Matrimonio, non può però ricadere fra le opere apprezzate dalle ultra-femministe moderne: Nicole e Charlie sono entrambi normali esseri umani.
Charlie, nascosto nel suo lavoro, nei suoi silenzi, nella segreta ammirazione che nutriva per la moglie ma che ha sempre avuto paura di esprimere, nel coltivare il dolore del suo essere senza passato, ha creato un avatar da grizzly emotivo. Quasi da parassita. Quello di un uomo sposato ma che non vuole davvero un matrimonio: vuole la cornice dell’album di foto. La famiglia di lei, un figlio, la certezza di una casa calda. Un comportamento che, sotto il microscopio di Storia di un Matrimonio, appare lucido, comune, comprensibile, perché Baumbach non giudica ma trasmette la relatività delle cose. Quella che c’è nel come i due concepiscono la felicità o la rabbia, il sentirsi costretti e il valore del compromesso. Il modo in cui la legge della California aiuto in modo spudorato le madri; la battaglia legale fatta a suon di quisquilie e di bicchieri di vino spacciati per alcolismo. Il sesso che non c’è più.
La scena climatica di Storia di un Matrimonio l’abbiamo vissuta tutti, almeno una volta. Il momento in cui, quando oramai si chiudono i rapporti con chi si è amato, ci si vomita addosso tutto il disprezzo. Che in realtà non si prova. Perché, in fondo, ci si è amati, ci si è fusi, si è combattuta la solitudine grazie ai baci dell’altro. Va però, a questo punto, fatto un appunto: se la regia di Baumbach è frizzante, e spezza spesso con eleganti intermezzi artistico/musicali – del resto, i protagonisti sono due performer – la tensione sofferente che si accumula nei tipici film drammatici hollywoodiani, si perde purtroppo in un’eccessiva tendenza alla didascalia nell’ultima parte del lavoro. I tempi si accorciano, le scene si abbreviano: un lungo epilogo di mezz’ora in cui l’avvocato Nora e la madre di Nicole, Sandra (Julia Beth Agerty) rubano la scena ai due protagonisti.
Adam Driver, ex marine divenuto attore scoperto per caso da Clint Eastwood e ingloriosamente scelto come Kylo Ren nell’offensivo reboot di Star Wars, non si limita al compitino, ma regala una performance magistrale (l’Oscar 2020 va a Phoenix di Joker, buoni) di un uomo le cui certezze crollano e che, per una volta nella sua vita, deve scendere a compromessi. Scarlet Johansson – che prenderà l’Oscar, non temete – con quel taglio pixie, i mocassini, e quei gesti così naturali della sua Nicole a tuttotondo, dipinge una persona in cui tutti possiamo rispecchiarci e che possiamo comprendere.
Storia di un Matrimonio invita, però, anche ad una riflessione più profonda. È davvero così necessario ferirsi e soffrire? Siamo davvero progettati per la monogamia? Per questi rapporti a due, intensissimi e allo stesso tempo fossilizzati su se stessi – con dinamiche che, sotto un occhio scientifico, appaiono tutte simili – che culminano in tragedie?
C’è una grande arrendevolezza e afflizione nel finale di Storia di Un Matrimonio, e Baumbach non fornisce la risposta. Ci ha solo raccontato la loro storia, diversa e uguale a tutte le altre.
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Il personaggio di Kylo Ren/Ben Solo compie, grazie all’ interpretazione magistrale di Adam, un arco narrativo meraviglioso.
La Trilogia Sequel poteva sviluppare meglio tutti i personaggi, ma Daisy Ridley, Adam Driver e Oscar Isaac hanno fatto un eccellente lavoro e reso belli i loro personaggi se pure Adam spicchi su tutti. E ad Isaac sia stato dato troppo poco spazio.