Sono sincera, ho affrontato con estremo senso di colpa la visione in anteprima delle prime tre puntate del documentario “Una semplice domanda” di Alessandro Cattelan, in uscita su Netflix il 18 marzo, un format che attendevo con fremito da un bel po’.
Cattelan è uno degli showman che preferisco, è quel tipo di intrattenitore che mi fa porre sempre lo stesso quesito: “Perché Fiorello, che non fa ridere dal ’99, continua ad essere così osannato e un talento giovane (sempre secondo i canonici italici) come lui deve arrancare?”.
Insomma, sia per curiosità che per sincera stima nei confronti dell’originalità del conduttore, avevo davvero voglia di lasciarmi rapire dall’ennesima fatica autoriale del Cattelan junior (da non confondere con quello della banana appesa nel museo).
Tuttavia, nonostante sia spesso caustico, la missione di Alessandro è far ridere. E in questo periodo storico, nonostante se ne abbia così bisogno, ridere mi fa sentire in colpa e a disagio rispetto a ciò che accade intorno a me. Il mondo è in brandelli, un paese invade un paese sovrano, famiglie spezzate, abitazioni devastate, un flusso di persone che fuggono senza avere una meta, alla ricerca della propria salvezza; l’ego di un nostalgico degli anni che furono tiene sotto scacco un intero continente, io non posso permettermi di ridere, comodamente seduta sulla mia poltrona ovattata, stringendo in mano un pacco di pop-corn. La mia umanità non me lo permette.
E a dar man forte a questo mio stato d’animo così combattuto è arrivato un tweet di un mio amico, un redattore di questo stesso magazine, Raffaele, che pare condividere con me questo stato d’animo, e afferma “mi creano un senso di malessere e disagio tutte le cose che continuano come se nulla fosse. Pubblicità di auto nuove, programmi sportivi, disquisizioni su argomenti futili mentre sul futuro incombono nuvole pesanti.”, ma poi mette la retromarcia, probabilmente facendo i conti con la realtà e la ovvia impotenza che ci vede protagonisti, e mi dice “È anche impossibile tenere sempre alto quel livello di tensione e attenzione!”, come a giustificare una pausa di straniamento.
E così, superata la diffidenza iniziale rispetto al mio ruolo in questa vicenda geopolitica, decido di vederlo e capisco già dai primi 5 minuti di aver fatto la scelta giusta.
Alessandro Cattelan cala subito l’asse sul tavolo con “una semplice domanda”, veicolata dalla figlia maggiore Nina che le chiede “papà, ma cos’è la felicità?”.
Alla faccia di “una semplice domanda”, questa è LA domanda del millennio.
Una semplice domanda: alla ricerca della felicità di Roberto Baggio
Nonostante Cattelan sia un oggettivo one-man-show, il suo talento è amplificato quando sceglie i giusti interlocutori, personalità così apparentemente diverse dalla sua, che formano un intreccio tanto azzardato da sembrare tremendamente distopico.
È il caso del Divin Codino, Roberto Baggio, una vera icona degli anni ’90, un simbolo che ha colorato canzoni (“aaaah da quando Baggio non gioca più, non è più domenica!”), immaginari cinematografici e anche bibliografie.
In questo episodio però Baggio sveste i panni del calciatore e veste quelli di uomo, condividendo con Alessandro Cattelan la sua ricetta della felicità. E lo fa trascinando il protagonista della serie in una serie di mantra meditativi recitati, con tanto di campane tibetane e incensi fumanti.
Alla domanda “cosa ti manca del calcio?”, la risposta è secca: “giocare”, ma con un finale che non ti aspetti “quando ho giocato la mia ultima partita ho pensato: menomale, è finita!”. Una testimonianza dolorosa, che ci ricorda che la felicità non è sempre il profumo di un inizio, ma anche l’appagamento della fine. Soprattutto se il percorso è stato tortuoso, faticoso, doloroso. La felicità a volte fa il paio con il sollievo.
Un colloquio che ha evidentemente smosso la coscienza di Cattelan, che ha deciso di andare più a fondo rispetto a “una semplice domanda” e cambiare interlocutore: sé stesso. E così, coinvolge un altro attore co-protagonista, uno psicoterapeuta a cui affida i suoi dubbi e le sue paure nel modo che gli viene più congeniale, davanti ad una birra.
Felicità e religione: qual è il nesso fra le due cose?
Mentre il colloquio con lo psicoterapeuta scorre, io mi ritrovo ad aver segnato una frase su un foglio che avevo accanto a me: “Se riuscissimo a spogliarci dall’ego, faremmo un primo passo verso la felicità?”.
Sembra essere “ego” la parola chiave di queste settimane, l’ego di un uomo che ha il terrore di terminare il suo mandato con la nomea di essere “colui il quale ha perso l’Ucraina” e vuole passare alla storia come “colui che ha riunito la vecchia Unione Sovietica, la cui dissoluzione è stata la vera tragedia del ventesimo secolo”. Sia chiaro, a dirlo non sono io, ma le decine di analisi geopolitiche e strategiche si susseguono da giorni.
E allora, ripensando a come si sta riscrivendo la storia dei nostri giorni, la risposta a questa domanda sembra necessariamente dover essere affermativa.
Mentre mi perdo tra i pensieri, iniziano a scorrere i titoli di coda con un colpo di scena: Alessandro Cattelan chiama in causa Banksy, e pone anche a lui “una semplice domanda”.
Mentre prende avvio il secondo episodio, mi torna in mente un’opera proprio di Banksy che ho visto sul Muro del Pianto, a Gerusalemme, durante un mio viaggio in missione umanitaria in Palestina. L’artista senza volto ha la capacità di dare una rappresentazione reale e immaginifica di ciò che accade nel mondo, soprattutto delle ingiustizie.
Il secondo episodio ha come filo rosso il tema della religione, un argomento per me spesso disturbante. Ma se è vero che nulla accade per caso, io sono atea – così come afferma di esserlo Cattelan – ma lo sono diventata dopo una vita da cattolica praticante, senza mai svenire con il piattino delle ostie in mano alla messa di Natale, proprio lì, dove la religione trova il suo fondamento: in Terra Santa.
Durante quel viaggio ho visto con i miei occhi la crudeltà, il genocidio e la barbarie umana a cui si sottopongono civili disarmati in nome di un dio, islamico o sionista, che boicotta la pacifica convivenza preferendo le ostilità e le bombe. E sono proprio quelle scene che rivivo sulla mia pelle in questi giorni e che mi bruciano come sale su una ferita ancora sanguinante.
Ci sono questi ricordi “E poi c’è Cattelan”, che con la sua tagliente ironia inventa un format tutto suo “4 Religioni”, perculando visibilmente l’omologo format culinario. In questo caso la contesa è fra quattro diverse fedi: cattolica, islamica, ebrea e induista, attraverso quattro giovanotti esponenti della propria etnia che mettono in luce punti in comune e differenze fra i diversi cammini di fede, nell’atto di permettere a Cattelan da quale parte stare.
Ma un cammino di fede non può non prevedere un degno regista, e chi meglio di Paolo Sorrentino? Il già premio oscar, candidato in corsa anche con “E’ stata la mano di Dio”, responsabile di dover dirigere il film della vita del protagonista, attraverso scene commoventi e altre ovviamente goliardiche, in quello che si prospetta essere l’ultimo giorno della sua vita.
Volgerà verso il suo compimento questo percorso spirituale? La risposta è nell’episodio successivo.
Si può essere felici mentre si combatte una malattia?
Così come Dante ha avuto il suo Virgilio nel suo viaggio biblico, che gli ha fatto da guida, da mentore e da supervisore, Cattelan ha il suo Gianluca Vialli che lo conduce in un percorso introspettivo di analisi e decodificazione del dolore e del suo ruolo pregnante nella nostra intera esistenza.
Ma in questa escalation emozionale che si amplifica di episodio in episodio – la quale sembra raggiungere il culmine proprio in questo episodio – è il ruolo e l’essenza dell’essere genitori a fare da padroni. Infatti, Vialli, senza autocommiserarsi, anzi considerando la sua patologia come un’alleata, come la responsabile della sua tempra, spiega che sapere di avere una scadenza, che non coincide con quella naturale, ti da un vantaggio rispetto alla vita che ti resta.
“I nostri figli seguono il nostro esempio molto più delle nostre parole; quindi, cerco di essere sempre l’esempio migliore per loro, soprattutto adesso che so non morirò di vecchiaia ma di altro. Insegno loro che devi parlare di meno e ascoltare di più, ma principalmente spiego loro che per essere felici devono trovare uno scopo.”
Insomma, alla domanda “si può essere felici mentre si combatte una malattia?” la risposta è ancora positiva. Così come positivo è tutto il mood che conduce questo racconto.
Alla fine di questo racconto mi piace chiudere con una delle frasi che ho ritenuto più significative, “Non c’è abbastanza tempo per fare le stronzate; fai quello che ti piace e basta. La vita può finire domani”.
E le vicende di questi giorni ci stanno ponendo davanti a questa cruda realtà.
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