Nel 1988 uscì Akira di Katsuhiro Otomo, anime che sarà poi destinato a divenire un classico e che ha fatto conoscere al mondo le vette dell’animazione giapponese. In Italia fu distribuito da Eagle Pictures, e attualmente è in lavorazione un live action.
Fra le pietre miliari dell’animazione mondiale, c’è Akira del geniale ed estremamente prolifico Katsuhiro Otomo. Autore, peraltro, anche dell’omonimo manga, opera stampata in Italia a tozzi e bocconi – inizialmente dalla Granata press in una bellissima edizione a colori, ma mai terminata, e, ora, finalmente, da Planet Manga in un corposo formato gigante che rende giustizia alle magnifiche tavole dell’autore. Otomo, fra tutti i vari esistenzialisti e studiosi dell’animo umano quali sono i maestri del fumetto giapponese, è secondo solo a Osamu Tezuka per sensibilità e complessità della storia: Akira è, infatti, un lavoro che si può leggere su molteplici piani, utilizzando molteplici chiavi, o semplicemente perdendosi nell’infinita e catastrofica fantasia che il lavoro ci prospetta.
Il manga, del 1982, era stato già un successo dell’ancora monopolizzante casa editrice Kodansha, fu, all’epoca, il più grande successo del fumetto giapponese nel mondo. Cruento eppure realistico, il film, al pari del manga, ha come protagonista l’antieroe Kaneda ed il suo amico d’infanzia Tetsuo: l’ambientazione – una Tokyo, al pari di Evangelion, devastata da un’esplosione forse nucleare che diede il la alla Terza Guerra Mondiale, vent’anni prima, e sommersa per sua gran parte nella città vecchia – è grigia, umida, sporca, oppure brilla del rosso fuoco della moto di Kaneda, o del verde brillante degli occhi degli esper, adulti intrappolati nel corpo di bambini e visi raggrinziti. Laddove, però, la trama del manga ha a disposizione ben sei volumi formato gigante per snodarsi – e vi assicuro che le tavole di Otomo sono ben ricche di contenuto; i suoi personaggi, come nel più recente “The Legend of Mother Sarah”, hanno molto da dire, contrariamente all’attuale tendenza di svuotamento dei baloon – il film ha un paio d’ore, e deve dunque condensare, nonché rendere di maggior impatto visivo, la storia del manga.
Dunque: nel mondo post-apocalittico di Akira, il Giappone è de facto governato da una dittatura militare.
Kaneda è il leader teen-ager di una banda di motociclisti, impegnato in un’acerrima guerra contro una banda rivale, e Tetsuo, col quale è cresciuto insieme e che frequenta la sua stessa scuola, è suo fidato compagno; lo invidia, ma lo rispetta e ammira. Una notte, durante una scorribanda, i ragazzi quasi investono una strana creatura: un anziano dal corpo di bambino. Infatti, pochi secondi prima del contatto fatale, un muro invisibile si innalza fra lui ed il duo. Kaneda, che è il focus e narratore nel film benchè nel manga rappresenti solo una delle molteplici storyline, si ritrova svenuto sull’asfalto; Tetsuo, invece, non riesce ad evitare il contatto con l’essere. Pochi attimi dopo, la polizia, guidata dal colonnello Shikishima, porta via Tetsuo conducendolo all’ospedale. Apparentemente nel tentativo di curare quelle strane ferite. Kaneda non lo sa, ma non c’è molta differenza fra il suo amico e quel vecchio bambino, un esper dai potenti poteri telecinetici. Chi è però Akira, la creatura che dà il nome all’opera?
Akira si snoda attraverso la resistenza, attraverso terribili esperimenti genetici che ricordano il progetto Mkultra; serpeggia attraverso la parapsicologia e la perdita di sé. Soprattutto, Akira tenta di rispondere ad una domanda che, apparentemente, è distantissima dalla materia trattata: cosa può fare il potere ad un essere umano se esso è più grande di lui?
E, per esteso: se l’umanità si trovasse in possesso di un potere gigantesco – qualunque sia la sua natura – saprebbe gestirlo o ciò equivarrebbe ad un’apoptosi?
L’atomica ci ha insegnato che l’umanità, forse, possiede più istinto di conservazione di quanto sembra, ma quando fu scritto il manga, in pieni anni ’80, la Guerra Fredda era ancora in corso e la cortina di ferro non accennava a crollare. Il progetto che ha portato alla creazione di Akira, il mostro solo, disperato ed incorporeo, che dà il nome al film, ha risucchiato tutti i fondi del Giappone – al pari della corsa agli armamenti.
Akira, eminenza grigia ed entità incorporea racchiusa in una prigione magnetica, chiama a sé i suoi simili, quale Tetsuo, quali i bambini dal volto raggrinzito, quali i fantasmi disperati che abitano le rovine della vecchia Tokyo: convince i più sensibili, dalla sua gabbia, che loro, i giusti, saranno salvati; che gli usurpatori, gli sfruttatori, i potenti, i golosi, gli avari, saranno eliminati. Proprio da Akira, questo misterioso messia, per il quale gli straccioni erigono templi fra il cemento – mentre la resistanza, guidata da Kay, ragazza cui Kaneda si innamora ben presto, vorrebbe smuovere il paese verso una maggior stabilità e ricchezza. Tetsuo, d’altro canto, umano debole e meschino, invidioso e superbo, si ritrova a gestire proprio quel potere ben più grande di sé, grande come quello di Akira, senza però averne l’innocenza: e non può che causare distruzione agli innocenti, agli straccioni, ai pii, agli umili, ma è anche destinato a fallire.
Grandi esplosioni, incontrollabili tumori che si espandono nel cemento umido d’acqua di un mare inquinato, inglobando materia, caleidoscopi di sofferenza: tutto questo, in Akira, è reso ottimamente e per la prima volta in assoluto nella storia dell’animazione; spaventosi fiumi di vene ed arterie, frattali di carne e linee chiare cariche di misteri visivi organici– e proprio in tale resa si nota la profonda ispirazione che Otomo prese dai lavori di Alejandro Jodorowski, regista e fumettista (nonché collaboratore del mitologico Moebius) che, fra gli anni ’80 e ’90, ebbe le mani in pasta in tutta l’arte mondiale grazie alla sua gigantesca opera l’Incal. La colonna sonora di Akira, peraltro, è un classico del genere: per la prima volta un tale spiegamento di forze (Tsutomo Ohashi, agronomo e compositore) veniva attuato per un anime. Ai cultori del prog le sonorità non risulteranno nuove: alcuni anni prima, nell’81, quel mattacchione di Robert Fripp aveva scoperto il gamelan indonesiano e aveva spinto il sound dei King Crimson verso una direzione cyberpunk e psichedelica. Perfetta, dunque, per il materiale di Akira.
Il tremendo futuro ipertecnologico e disilluso di Akira non si è realizzato. O quantomeno, non si è realizzato nella forma concepita da Katsuhiro Otomo. Eppure, la gigantesca solitudine di quel bambino abbandonato, ricolmo di un potere più grande di lui e che non possiede affatto i mezzi per gestire, è davvero così alieno alla nostra epoca?
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