O Barone, storia di un clochard che popola l’arte napoletana.

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Fuori è facile da giudicare, dentro è difficile da vivere una vita da invisibile.

Così sono chiamate le persone che sempre più spesso nelle grandi città popolano strade, stazioni, portici o gallerie in cerca di riparo per la notte. Sono queste persone sempre più bersaglio delle lotte dei sedicenti democratici contro il degrado. Spesso di queste persone però non si conosce nulla o quasi, non si conoscono neanche i nomi, e senza un nome un uomo non ha una storia.

O Barone, storia di un clochard che popola l'arte napoletana. 1

Capita però che da questo quadro sfuocato per la maggior parte della gente distratta si stagli una figura, un profilo, e da quelle forme si faccia largo un nome o un soprannome che riesce a trascinare a galla anche una storia.

È il caso di Antonio Varvella, meglio noto come o Barone, uno dei nomi più conosciuti all’interno di quel territorio compreso nel triangolo delle serate napoletane di inizio anni 2000, Piazza Bellini, Piazza del Gesù e Piazza San Domenico.

O Barone è scomparso i primi giorni di marzo nel 2014, la sua morte ha destato all’epoca molto scalpore in tutta la città di Napoli in quanto era una dei clochard più conosciuti dei vicoli partenopei. La sua storia mescola notizie vere e leggenda. Originario della Riviera di Chiaia ma di famiglia semplice.

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“Antonio ha vissuto sempre inseguendo la sua libertà già da quando aveva appena quattordici anni. A 17 anni ebbe un incidente per un tuffo dall’ultimo piano del castello degli spiriti a Posillipo e gli costò la sua salute mentale da lì il nostro disperato tentativo di ricoverarlo nel tentativo di tenerlo, in qualche modo calmo ma non è mai stato possibile.

Da lì una vita di problemi per se stesso per le sue figlie – racconta il fratello – e per la nostra famiglia in generale. O Barone aveva un animo nobile, lo ha sempre avuto fin da ragazzo. La sua storia condivisa con la nostra famiglia composta da madre padre e cinque figli è frutto di abbandono sociale istituzionale, di figli che per riscattarsi prendono la propria strada”

O Barone lo chiamavano il clochard degli studenti perché in cambio dei soldi per una birra o un panino snocciolava massime di filosofia che sono rimaste leggendarie nel passaparola dei vicoli.

La sua figura è stata consegnata per la prima volta agli annali da Fede’n’Marlen nel 2017. Il duo di cantautrici folk napoletane ha infatti scritto una canzone dedicata al barone, o Mele, nel loro disco Mandorle.

Me chiammano ‘o barone
L’uocchie azzurre attuorno ‘o sole
Ccu chesta vocca viola te racconto ‘n’ata storia

Si o’ munno girà e va’ ‘sta casa mia
‘Ca adda passà
Si o’ munno girà e va’ ‘sta casa mia
‘Ca adda passà

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Antonio, il senzatetto da tutti ribattezzato ‘O Barone era una delle molte anime solitarie e tralasciate dei decumani. Solo, ma allo stesso tempo (ri)conosciuto e aiutato da vari abitanti e del centro storico. Un po’ filosofo, un po’ alticcio, il Barone salutava tutti con fare un po’ corrucciato, ma mai minaccioso, nel volto dai lineamenti forti e profondi occhi azzurri.

Una delle persone che ha probabilmente incontrato il Barone è stato Alessio Forgione, o forse anche lui come molti ne ha soltanto sentito parlare. Sta di fatto che Antonio Varvella dopo essere entrato col suo nome e la sua storia nel disco di Fede’n’Marlen si è tolto la soddisfazione di entrare anche nella vita di Amoresano, il protagonista dell’ultimo libro dello scrittore napoletano.

Forgione infatti cita il barone in uno dei capitoli de “Il nostro meglio” il suo ultimo romanzo edito da La nave di Teseo. Anche Amoresano, che si muove nel centro storico di Napoli intorno al 2006, è uno dei tanti ragazzi che si fermava ad offrire una sigaretta o una birra al Barone al ritorno da qualche concerto o da una serata in Piazza del Gesù.

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Non solo la musica e la letteratura però hanno reso omaggio al simbolo degli invisibili napoletani, perché poco tempo dopo la sua scomparsa il Collettivo Fx ha dedicato un murales a piazza del Gesù per l’indimenticato clochard partenopeo. Alla realizzazione del ritratto del Barone hanno collaborato anche Federica Belmonte, storica dell’arte napoletana e Giancarlo De Maio, giovane proprietario ed editore della libreria “Dante & Descartes”.

Come la vita di Antonio Varvella anche il murales a lui dedicato ha vissuto di precarietà essendo stato realizzato sulle impalcature di un cantiere al centro storico. Non a caso lo stesso libraio De Maio ha conservato il ritaglio di quel pannello contenente il murale affiggendolo vicino la sua libreria una volta che il cantiere è stato rimosso.

Dietro ogni matto c’è un villaggio diceva Fabrizio de André, dietro o Barone c’è una città intera, una delle più grandi d’Italia. Perché spesso serve avere un nome per avere il diritto ad una storia. Antonio Varvella ha avuto anche un soprannome che lo ha consegnato a migliaia di persone che ancora oggi continuano a farlo rivivere nei loro racconti.

Raffaele Calvanese
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