NATION dei Bad Wolves: recensione

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NATION,secondo capitolo dell’avventura di Bad Wolves iniziata nel 2018 con Disobey, è uscito il 25 ottobre per Eleven Seven Music.

Fra gli innumerevoli vocalist del panorama rock contemporaneo, laddove c’è una moria di pochezza nel campo femminile, nel campo maschile brilla un astro: Tommy Vext. Vext è, appunto, vocalist e co-fondatore di Bad Wolves (non ho mai capito se il rimando al Doctor Who fosse stato volontario), band che nel 2018 dovenne famosissima per la cover di Zombie dei Cranberries proprio a cavallo della dipartita di Dolores O’ Riordan, che aveva peraltro benedetto tale versione.

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Screenshot dal videoclip di Zombie.

Incredibilmente prolifico, il quintetto, composto da Vext, John Boecklin alla batteria, Doc Coyle e Chris Cain alla chitarra nonché Kyle Konkiel al basso, ha rilasciato il proprio debutto Disobey nel maggio del 2018, album che fu ottimamente ricevuto dalla critica – trainato dal singolo Zombie e da Hear me Now con Diamante – e fu anche un successo – raro di questi tempi – di vendite. Un rock frizzante e divertente, per tutti i palati, non particolarmente impegnativo per quanto ricco di sottigliezze che necessitano di un ascolto più attento per essere colte. Di già, a ottobre 2019, abbiamo ricevuto il suo seguito: Nation, scritto come N. A. T. I. O. N., che ci ricorda un po’ B. Y. O. B. dei System of a Down.

Tracklist di NATION dei Bad Wolves

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  • I’ll Be There
  • No Messiah
  • Learn to Walk Again
  • Killing Me Slowly
  • Better Off This Way
  • Foe or Friend
  • Sober
  • Back in the Days
  • The Consumerist
  • Heaven So Heartless
  • Crying Game
  • L.A. Song

In molti hanno accostato i Bad Wolves all’altro astro del mesto rock contemporaneo, i Five Finger Death Punch. Beh, non c’entrano niente l’uno con l’altro.

I Bad Wolves propongono, come ho già annunciato, un rock complesso e più studiato, frutto di una lunga esperienza. E tale regola vale anche per Nation, che parte fortissimo con i rimandi nu-metal di I’ll Be There.

Non c’è tempo per fermarsi ed inizia No Messiah, brano che, groovy e catchy allo stesso tempo, potrebbe essere l’ottima soundtrack per un videogame di Hideo Kojima: ecco qui che i primi accenni della raffinatezza dei Bad Wolves si fanno strada, in quanto l’eredità di Hail Stan dei Periphery ha influenzato più di quanto i proggers potrebbero aver sperato – e la struttura sottesa al brano lo rivela. Learn to Walk again aggiunge poco di quanto espresso in Disobey, ma potrebbe essere un eccellente singolo, mentre incursioni chitarristiche power metal sono presenti in Killing me Slowly, un brano energico ed espressivo. Anche le coloriture e gli affondi baritonali di Vext rimandano sonorità nordiche – ed il che non può che far piacere.

Posso affermare con grande certezza che Better off this way è stata composta dopo un ripassino dei primi Alter Bridge e dei Three Doors Down (I’m here without you babe, but I think about you all the time!), pregevole ballad che prende il posto di Hear me Now in Nation. Intelaiature elettroniche moderne e delicate fanno da supporto all’eccellente voce di Vext, mentre le esplosioni chitarristiche ne incrementano il trasporto emotivo. Interrotta dall’energica Foe or Friend (che suona un po’ come un riempitivo), la sequenza di ballad riprende con Sober, venature pop di gente come gli Imagine Dragons o i Bastille si fanno strada in un album rock/metalcore, ma manca della carica emozionale di Better off This Way. L’esperienza di malinconico throwback di Back in The Days si risolve senza particolare pregio, lasciando spazio all’acido delle chitarre di The Consumerist, brano massiccio e corposo che intervalla growl e voce pulita per un’ottima traccia live.

Brano migliore dell’album è però la sentita Heaven So Heartless: di nuovo la lezione del prog contemporaneo (un po’ di Between the Buried and Me e un po’ di Riverside) viene ben accolta dai Bad Wolves che la includono in una traccia delicata ed incisiva. A tutti coloro che accostano i Five Finger Death Punch consiglierei fortemente di inforcare le cuffie e ascoltare il cambio di ritmo del bridge e fare i dovuti paragoni.

Crying Game è di nuovo un giusto riempitivo, che prelude a LA Song, chitarre ad alta gravità e growl insistente: una cattiveria che effettivamente mancava in Nation e che contribuisce a definire il Bad Wolves – sound.

Come concludere, dunque? Nation è un album di passaggio, fra un ottimo esordio quale è stato Disobey ed una carriera che ci auguriamo sia gloriosa: tutti abbiamo avuto una band al liceo in cui facevamo cover di Zombie e dei Red Hot Chili Peppers, ma nessuno di noi ci è diventato famoso. Ora che i Bad Wolves sono liberi dal gigantesco cartello di “cover band” che la stampa gli aveva affibbiato, sono liberi di esprimere il proprio potenziale: e non possiamo che, con Nation, augurargli il meglio.

Giulia Della Pelle
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