Aphelion, Leprous: recensione

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Il nuovo album dei norvegesi Leprous è Aphelion, uscito il 27 agosto 2021 per Inside Out e anticipato dai singoli Running Low e Castaway Angels.

Una volta erano i Dream Theater; prima ancora furono i Rush. La voce da sirena ufficiale del prog metal è stata James LaBrie per un tempo incalcolabile; ora quel trono è stato reclamato da un vichingo, Einar Solberg, vocalist dei Leprous.

Camicia lucida, gilet nero, stile da pianobar lounge anni ’60: la chiccheria che i Leprous profondono nella presentazione si riflette anche nell’estrema eleganza delle composizioni, nella sempre eccezionale produzione, ma, anche e soprattutto, nelle sempre coerenti quanto audaci scelte musicali. Il lungo ensemble di lavori cui hanno abituato un pubblico sempre piu vasto si arricchisce infatti di un nuovo membro: Aphelion, l’afelio, il punto per un pianeta piu distante dal suo sole. Trattiamo dunque di oscurità, di languide luci soffuse, di ghiacci bui e di descrizioni attonite di paesaggi disperanti.

Aphelion, Leprous: recensione 1

Se i Leprous hanno forse conquistato molti grazie alle loro ballad pop – quali Alleviate, Valley, The Flame – tale elemento catchy e trascinante è del tutto assente in Aphelion, dove domina la logica sul sentimento, lo stoicismo sul romanticismo cui ci avevano abituati, Malina e Pitfalls – i due album precedenti – impallidiscono in termini di intensità rispetto ad Aphelion. Morboso ed oscuro, Aphelion si immerge in abissi rocciosi – come nella cover, a là 2001 Odissea nello spazio – generati dalla mancanza di luce, gioca su architetture sonore fragili e complesse all’estremo, e predilige l’utilizzo di strumenti distanti dalla produzione precedente: violini, effetti orchestrali, chitarre acustiche. L’intensità di Aphelion si coglie, però, sul lungo periodo, contrariamente all’esasperato trasporto espressionista, quasi Munchiano, espresso in particolare in Pitfalls. I Covid album, effettivamente, hanno tutti qualcosa in comune: l’introspezione, una ricerca quasi archeologica di misteri sopiti e dimenticati all’interno dell’animo umano, e, nel comparto tecnico, di produzione raffinatissime e non convenzionali.

Running Low, opening dell’album e primo singolo, manca del mordente di tanti altri singoli dei Leprous, e si fa apprezzare dopo numerosi ascolti – l’assolo di violino struggente, disperato, corde mosse da un tormento interiore piu che fisico, ne alleggerisce la struttura, e aria fluisce all’interno della partitura, altrimenti soffocante. I rimandi allo spazio, così vicino alla cultura nordica e quelle stelle, che brillano nelle luci verdi dell’aurora boreale, sono presentissimi in tutto l’album, come nella successiva Out of Here, accarezzata da Solberg in un lento crescendo dei suoi lied e vocalizzi – una stella che si libera dei suoi strati superiori, ormai esauriti e incapaci di dare luce; solo drum machine e chitarra elettrica a sostenerne la voce, se non per l’esplosione finale.

leprous aphelion recensione

Aphelion manca dell’epicità espressionista e immensa di Pitfalls, ma non per questo è un male. È un viaggio in un ambiente ristretto, cui preferisce scrutarne ogni dettaglio da punti di vista differenti, un opale in confronto ad un diamante monosfaccettato. E Silhouette verte ugualmente sulla necessità di lasciar fluire il proprio io interiore, prima che esso, degradandosi, contamini il proprio nucleo centrale, ma in una narrazione sonora meno convenzionale rispetto a Out of Here; si intervallano momenti elettronici e ritmiche sincopate – batteria sussurrante di spazzole di Baard Kolstad – a cavalcate in stile Leprous nel refrain. Un improvviso momento AOR/British Hard rock appare in All the Moments, line di chitarre e batteria in controtempo; è una gioiosa elegia giocata su accordi maggiori – tutto finisce, il passato (l’era pre-pandemia?) non tornerà mai piu; il disperato, sebbene apparentemente sereno gospel di Solberg rende intensissima la resa finale.  

All the moments are gone

Forever is a myth

The presence is the only thing that’s real

All the moments are gone

Finding it alone

Trying to atone

Brano centrale del platter di Aphelion è Have you ever, linea vocale straniante e bassi appena udibili, in un gigantesco lavoro di mixing: appare un lavoro collettivo, di piu entità che si muovono nel buio e concorrono all’effetto finale. Di nuovo, il tema della finitudine appare ma stavolta è declinato in termini riduzionisti e non universali: Solberg racconta la fine di un rapporto, di una storia, di come la promessa di eternità sia impossibile ontologicamente da soddisfare; il suo falsetto abbaglia. Energico contraltare ne è The Silent Revelation, da echi quasi indie dei Pure Reason Revolution, forse fra  l’altro il brano maggiormente pop dell’album, ma non per questo meno pregevole nella costruzione.

Baroccheggiante, The Shadow Side fa uso di ritmiche somiglianti ad un distorto clavicembalo ed effetti orchestrali, mentre Solberg non abusa della propria voce preferendo che sia l’intero impianto a parlare; ci troviamo di fronte ad un brano che non avrebbe sfigurato in un album di Devin Townsend, ma ricolmo dell’eleganza e della sobrietà tipiche dei Leprous. L’oscurità dell’afelio, il punto piu basso della vita di un essere umano e di un astro, il piu lontano dalla luce e dalla gioia, viene stavolta accettata ed accolta; essa è parte integrante dell’esistenza e è ineluttabile. Come in una funzione parabolica, si può solo toccare il fondo per risalire. Si prosegue con On Hold, delicata ballad elettrica, filler narrativo che sviluppa e arricchisce il personale conflitto dell’innominato protagonista di Aphelion seguendo la struttura di Have you ever.

Aphelion è un album lungo, e, forse, per questo, leggermente sfiancante per intensità emotiva espressa e dunque attenzione richiesta all’ascoltatore: tale pathòs non accenna a diminuire in Castaway Angels, solo una chitarra acustica ad accompagnare Solberg, che si esibisce in una delle sue solite ascese vocali e performance eccelse.

Aphelion è infine chiuso da Nighttime Disguise, brano duro e violento, che conclude l’album senza speranza alcuna: un’accorata descrizione di una crisi depressiva, l’incapacità di uscire dal buco senza fondo della propria anima – il senso di colpa persistente. L’oscurità che chiama ma che repelle. I cambi di tempo sbalordiscono e confondono allo stesso tempo, straniando l’ascoltatore – volutamente, in un blues accecante di stelle morte.

Ci troviamo di fronte ad un album complesso, raffinato, ma soprattutto, capace di suscitare emozioni differenti in ciascuno: ansia, tristezza, claustrofobia. Non c’è un filo di luce, al termine dell’afelio, all’ascesa della parabola. Neppure la piu flebile. Il pianista si allontana dal suo strumento, la serata finisce in applausi svogliati. Ascolto consigliato ai non deboli di cuore, ma l’ennesimo tassello eccezionale alla già variegata discografia dei Leprous, che si mantiene su livelli qualitativamente altissimi.

Giulia Della Pelle
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