Archetype, Coma Berenices – Recensione

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Le Coma Berenices, al secolo Antonella Bianco e Daniela Capalbo, tornano con Archetype, il nuovo album a quattro anni di distanza dal loro esordio discografico con Delight.

Un gruppo che fa musica strumentale in un’epoca in cui la musica nelle canzoni è quasi scomparsa, soffocata da troppe inutili parole e da pochissime esecuzioni degne di nota, è in qualche modo visionario. Le Coma Berenices visionarie lo sono già nella radice del loro nome che allude ad una costellazione visibile nelle notti della tarda primavera quando il cielo non è inquinato. Così in giorni di strade deserte e di traffico pari a zero come la loro costellazioni si palesa anche il disco Arhetype.

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Antonella Bianco e Daniela Capalbo (Coma Berenices)

Se brani per una durata totale di meno di mezz’ora, in Archetype, che ci portano per mano nell’universo interiore di Daniela ed Antonella, un mondo visibile ed attraversabile solo e grazie alle loro canzoni. Un modo di comunicare senza parlare, come se l’unico vero linguaggio universale, quello della musica potesse finalmente scrollarsi di dosso fardelli inutili ed orpelli superflui.

Il primo brano Arché è idealmente diviso in due, è l’alfa, la scintilla, l’inizio di un discorso declinato su note di chitarra con una batteria (quella di Andrea De Fazio già  nei Nu Guinea e nei Fitness Forever) dal sapore vintage, che richiama sonorità e produzioni anni 70 e che farà da filo conduttore per tutto l’album le cui registrazioni dal vivo e i missaggi sono stati curati da Peppe De Angelis c/o il Monopattino Studio Recording di Sorrento.

Keep Your Feet On The Stars è il ventre di Archetype diviso in due session, Pt1 più breve e Pt2 più corposa, una musica che serve a fare da bussola a pensieri alla deriva, come un faro per una nave. Oltre a Daniela ed Antonella nell’album ha collaborato il clarinettista Gabriele Cernagora (già ne Lamansarda). In questo brano diviso in due il ritmo cresce col passare dei minuti terminando in un piccolo crescendo. Poi Silent days, e quel senso di solitudine che sembra trasudare questo brano, un futuro incerto e un orizzonte poco chiaro, giorni in cui le parole sono superflue ed i pensieri si affastellano, assume tutto una forma più chiara in questo brano da ascoltare e riascoltare.

À l’improviste, un brano in cui la costruzione è più elaborata, la batterie e le chitarre si incrociano in in fasi melodiche e più cervellotiche, poi tutto l’insieme cresce e con esso anche il ritmo restituendo la canzone forse più corale di tutto il disco. Riyad è come la fine di un viaggio fatto guardando soltanto verso il cielo. Succede così raramente di guardare in alto quando si cammina, lo si riesce a fare, come la ragazza raffigurata sulla copertina dell’album delle Coma Berenices. Un disco, Archetype, che ti prende la mano e ti guida al buio sotto un cielo stellato da interrogare senza avere risposte particolari se non quelle che noi stessi sappiamo trovare dentro il nostro cielo personale.

Raffaele Calvanese
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