Dark Connection, Beast in Black: recensione

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Dark Connection è il terzo album (Nuclear Blast) dei Beast in Black, anticipato dal singolo One in Tokyo e in uscita il 29 ottobre 2021.

La distruzione del tossico modello del metallaro duro e puro è stata portata avanti e sta venendo completata – deo gratias – da band come i Beast in Black. I finlandesi, il cui vocalist con voce da sirena Yannis Papadopoulos ha incantato il mondo con le sue cover in falsetto (Ghost Love Score dei Nightwish su tutte).

La totale rimozione della tossicità intrinseca nell’ambiente metallaro ha portato ad alcuni esperimenti di genere estremamente interessanti, da parte della band di Anton Kabanen: l’esordio Berserker, il seguito From Hell With Love, e tale formula è rispettata anche nell’odierno Dark Connection. L’aver peraltro anche abbracciato la cultura otaku è una peculiarità della band: il nome, infatti, deriva dal manga Berserk, capolavoro del recentemente scomparso Kentaro Miura.

I brani dei Beast in Black fondono, in linea generale, pop, dance e power metal: un power metal fortemente cinematico e scenografico, in cui elementi classici come la doppia cassa o i riff in accordi maggiori di chitarra sono declinati in chiave catchy, su composizioni che sono, in realtà, pop; tali elementi risultano peraltro solamente una firma, per far afferire tale stile musicale a qualche genere già noto, ma in piena libertà compositiva. Non c’è veleno né maledizione né oscurità nei Beast in Black: le principesse, infine, vengono salvate; i draghi, domati; il romanticismo, quando espresso, non è decadente né drammatico, bensì contornato di voluti cliché carichi d’ironia; le battaglie, quando rappresentate, sono volutamente caricaturali della ridicola e villosa virilità dei Manowar. Infine, lo stile di vestiario adottato dalla band è incredibilmente metal classico – così gothic da sembrare artefatto, cosa che effettivamente è. Tutto il mondo dei Beast in Black, contrariamente al loro nome, è colorato: è divertente, schizzi di tempera sulla telecamera fissa, è spruzzate di vodka e paillettes.

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Una band che scardina gli stereotipi, dunque, e che si diverte da morire a fare ciò che fa: anche questo è il caso di Dark Connection, anticipato dal singolo One Night in Tokyo.

Proprio da One Night in Tokyo è facile partire per parlare di Dark Connection: ritorna la tematica otaku, stavolta cyberpunk ma soprattutto synthwave e vaporwave: c’è Big in Japan degli Alphaville, ma anche qualcosa delle Babymetal; gli elementi compositivi principali vengono presi in prestito dagli Amaranthe, ma semplificati e resi più fruibili. In una parola: un brano eurodance. Il videoclip del brano è un omaggio eccezionale ai prodotti cyberpunk, europei e giapponesi, più famosi di sempre: ci sono elementi di Neon Genesis Evangelion, de l’Incal di Jodorowski, della saga degli immortali di Enki Bilal, Akira, di Blade Runner e altri lavori di Philip Dick, oltre che l’onnipresente bestia nera di Berserk.

Come avevo già espresso in un altro articolo, la musica dei Beast in Black sembra avere uno specifico target: i Millennials. I trentenni. Ma non i trentenni qualsiasi: i musicofili, i nerd, gli sfigati, gli ultimi o i primi della classe, gli outsider, gli isolati, coloro che ancora devono trovare una propria dimensione, che seguono TikTok con vago distacco mentre mandano CV su Linkedin durante una cena a casa di mamma – che si lamenta sul perché non si sono ancora sposati. I componenti della band sono tutti nati fra i tardi anni ’80 e i primi ’90, e condividono le stesse passioni e problemi di tutti gli altri millennials europei.

La musica dei Beast in Black è divertimento ed è evasione, è una discoteca per chi le discoteche non le ha mai amate: è una connessione con gli sconosciuti dall’altra parte del mondo, una connessione oscura, una Dark Connection.

E Dark Connection è una vera e propria collezione di potenziali hit: Blade Runner, che non abbandona i synth del primo singolo One Night in Tokyo ma li sfrutta come in un brano degli altrettanto norreni Europe, mentre la più AOR/hard rock Bella Donna diverte come un brano dei The Night Flight Orchestra – quelle cavalcate catchy che sono ideali per un lungo viaggio in auto, mentre si sorpassa a destra. L’idea del viaggio è ancora più forte in Highway to Mars, brano leggermente più oscuro, cui segue Hardcore, brano il cui titolo calza a pennello e somiglia appunto ad un esperimento stilistico. La colonna sonora di un anime cyberpunk.

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I brani raccolti in Dark Connection sono tutti notevoli, per un motivo o per un altro: nessuno passa in sordina e tutti catturano l’attenzione. Anche la più placida Moonlight Randezvous è la perfetta soundtrack ad un potenziale Fuga da Los Angeles degli anni ’20 (odierni, eh). Un po’ di happy hardcore a là S3RL appare in Revengeance Machine, mentre la ironmaideneggiante Dark New World – beh, il titolo è già un palese rimando a ben altri lavori degli inglesi –  è un inno battagliero. Torniamo potentemente agli anni ’80 con To The Last Drop of Blood – un titolo che ricorderebbe i Cradle of Filth o qualche, specifico, cantautore depresso power metal norreno – e che mescola tòpoi metal abbastanza a caso, in un coloratissimo calderone dell’alchimista: sangue, draghi, magia, re di regni perduti, guerre, cavalli…

Gli ultimi due brani originali di Dark Connection sono Broken Survivors, in cui vediamo il ritorno al falsetto – da brodo di giuggiole – di Yannis e ai suoni più chiari e delicati presenti in From Hell With Love, e infine My Distopia, brano atmosferico orchestrale e pianistico, di eccezionale fattura: chapeau per Anton Kabanen.

Eppure, forse, il pezzo forte di Dark Connection sono due cover. Due cover che testimoniano due cose, riguardo i Beast in Black: la prima, la chiarissima, dichiarata, volontà, di distruggere il modello del metallaro duro e puro; la seconda è la chiara targetizzazione della loro musica, ossia per un determinato tipo di pubblico che, dopo una lunga evoluzione ed una fenomenologia comune a tutti i musicofili (“Sono triste, ascolto Burzum, che schifo Micheal Jackson” a 16 anni, per poi finire a ballare su Smooth Criminal a 30) ha raggiunto uno status quo in cui è in grado di apprezzare l’arte indipendentemente dalla categoria appioppatagli. Dunque: la prima cover è Battle Hymn degli ormai morti, stramorti e marciti (menomale) Manowar, che ai tempi brillarono solamente per i loro petti villosi unti d’olio – manco fossero spartani alle termopili – mentre ben meno rilucevano per il loro amore e rispetto per il genere femminile. La cover dei Beast in Black svecchia il sound della hit e la fa propria: non dubito che ad un primo ascolto, uno Zoomer, penserà sia un brano originale.

La seconda cover è appunto di Michael Jackson, la complessa e geniale They Don’t Care About Us. Nel  brano, inciso nel 1996 per l’album HIStory: Past, Present and Future – Book I, coloro che non si interessavano a “noi”, erano, rispettivamente, la classe o razza predominante – i bianchi, di discendenza europea o per meglio dire inglese, in USA – e tutte le minoranze: ebrei, neri, ispanici, nativi americani.

Due brani, dunque, entrambi noti ai nati negli anni ’90, che vengono ad unirsi in un lavoro in grado di piegare i generi musicali e che vuole, può, deve, trasmettere molto più dei suoi suoni accattivanti. Parlare di generi è demodè per i Beast in Black, che sanno fare cover di Tarja Turunen, i Manowar e Michael Jackson, e comporre musica propria di altissima qualità.

Giulia Della Pelle
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1 commento su “Dark Connection, Beast in Black: recensione”

  1. A me l’inizio di “To The Last Drop of Blood” ricorda un’altra canzone ma non mi viene in mente quale…

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