Everything Was Beautiful, Spiritualized: recensione

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In aprile 2022 è uscito l’ennesimo capitolo della saga degli Spiritualized, progetto di Jason Pierce, meglio detto Spaceman. Everything was Beautiful è uscito per Fat Possum Records.

C’è una soavità particolare nella voce ruvida e malinconità di Spaceman, Jason Pierce. Gli Spiritualized, infatti, addolciscono la nostra esistenza sin dal 1990. E, finora, la band inglese ha un curriculum eccezionale: dalla pietra miliare quale Ladies and Gentlement we Are Floating in Space (che ha compiuto venticinque anni a giugno), al più recente And Nothing Hurt, la band di Spacemen ha saputo creare un genere, reinventare lo shoegaze, giocare coi sentimenti e sviluppare, con dedizione e soprattutto moltissimo studio, un suo potente e riconoscibile.

Quasi alieno, per la bellezza.

Quasi onirico, per la surrealtà di cui la musica degli Spiritualized è impregnata.

Un’estetica intera, fatta di pacchetti di tablets di psicofarmaci sacralizzate nelle cover; dee psichedeliche a cui rifarsi; il blues – blue, triste, afflitto – che si tinge di colorata, pazza, malinconia.

Oramai, classe ’65, Pierce ha dato quasi tutto ciò che poteva, alla musica. Eppure, dopo And Nothing Hurt del 2018, che conteneva gemme quali The Prize e I’m Your Man, ha trovato la forza di produrre nuova musica. Ed ora, solo la musica è la sua droga: sulla copertina di Everything Was Beautiful campeggia un biglietto di un concerto. Standard, formato ticketone, per capirci. Un oggetto così comune, così normale. Così dato per scontato, prima del febbraio del 2020. Eppure, assomiglia ancora terribilmente a quelle scatolette di farmaci, concetto base dell’imagery Spiritualized.

È, quindi, Everything Was Beautiful, un covid-album? Difficile a dirsi. Pierce ha sempre avuto la capacità estrema di sfiorare le emozioni universali senza descriverle appieno, lasciando all’ascoltatore la libertà di trovare la giusta declinazione – un quadro astratto, surreale. Fluttuando leggero, come un viaggiatore in un mondo a bassa gravità, sopra a quel piano, concreto, formato dalle emozioni nude e crude degli umani tutti. Una sensibilità diversa, dunque. Quella di un alienato, un alieno. Un codice leggermente diverso che ne regola l’esistenza.

Con Everything Was Beautiful, Pierce compie il tragitto inverso. Con l’intero mondo che è isolato, con l’umanità che si ritrova incastrata in tanti minuscoli loop, in infiniti microcosmi, lui si riconnette ad essa. Si riconnette al tutto. E lo fa meravigliosamente: laddove i covid album sono ridotti al minimo, registrati a distanza, mixati su Whatsapp, Spaceman suona tutto da solo. Fa tutto lui. Scrive, registra, mixa. Recupera gli outtake di And Nothing Hurt, li rilavora, ci gioca. Si prende tutto il tempo che vuole.

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“I didn’t feel bad for not being invited to that special party”, dice. Sente di non avere obblighi e responsabilità verso nessuno: monade autosufficiente, batterio che crea il suo ecosistema, Pierce scrive e realizza il miracolo. Everything was Beautiful è il miglior album Spiritualized dai tempi di Ladies and Gentlement we Are Floating in Space, e non è animato dalla nostalgia per un amore perduto, come lo era il capolavoro anni ’90: ciò che lo anima è la voglia di vivere, la voglia di toccare, di essere toccato, di esprimersi, di farsi conoscere.

Si tratta di quarantaquattro minuti, ma intensissimi: che passano rapidamente, anche troppo. L’amore, ancora al centro della composizione, con la bellissima Always Together with You, è, questa volta, da uomo maturo, universale. L’amore è il pianeta Terra; è l’umanità tutta; sono tutti gli esseri viventi che la abitano. È nella neve sui monti, è nell’erba, è negli alberi bruciati in Amazzonia. È la forza vitale che viene a mancare durante le guerre. L’amore è l’unica casa che abbiamo, vista dall’oblò dello Space Shuttle di un astronauta solitari. L’amore è un animale mitico, è una divinità in fasce: l’amore è tutto ciò che c’è oltre la dipendenza verso le droghe. L’amore è la libertà di poter godere delle bellezze, e delle brutture, dell’universo, in piena coscienza. Tutto ciò ci dice il videoclip del primo singolo da Everything Was Beautiful, appunto di Always Together with You, che spacemen dice essere stato ispirato da Adam Curtis – e, ammettiamolo, fortemente da Koyanisqaatsi. Always Together with You è una ballad sospesa, che si dondola fra bip di ecocardiogrammi o di tute spaziali, e le tipiche accelerazioni di nacchere, dubbing, controcanti, di Spacemen. Che continua a sussurrare con la sua voce malinconica.

Everything was Beautiful, sempre vivace e gioioso, prosegue con Best Thing You Never Had, che ha in sè un lavoro eccezionale di mixing, un sound avvolgente e totalizzante.

Chitarra distorta e pizzicata, risate gaie, groove psichedelici anni ’60, ipnotici e ripetitivi. Quasi country. Quasi vintage, quasi gospel, nei cori muliebri. Ma il tempo non esiste nel mondo spaziale degli Spiritualized. Come un cielo terso ma punteggiato di soffici nuvolette bianche, Let It Bleed si inserisce come una ballad dream pop – genere che, ricordiamo, Spacemen ha sostanzialmente creato – per poi esplodere nel refrain, fra ottoni e ritmica quasi marziale. Un divertissment, a cui anche gli Arcade Fire – unica altra band “indie” vagamente comparabile – che si insinua fra le luci ossessive di una metropoli e risale grattacieli in verticale.

La strabiliante dolcezza intima di Pierce si rintraccia poi in brani come Crazy e I’m Coming Home Again: la prima, ballad lounge solo chitarra, voce, e qualche effetto, descrive un amore adulto, rassegnato, eppure sereno. Roccioso. Poroso nel suo coro struggente. Un brano pop semplice, ma efficacissimo. Sprazzi di alienità, finalmente, appaiono nei synth anni ’80 di The Mainline Song, nei treni campionati come astronavi, nella costruzione da soundtrack del brano, in cui strumenti, ottoni di varia fattura, si aggiungono come nuovi voci al vocalizzo principale; un via vai di strani alieni, razze diverse, nella via principale di un’affollata stazione spaziale.

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Link al mini film di I’m Coming Home Again

The A Song (Laid On Your Side) sfiora sperimentazioni battiatesche e prog – quell’Hammond – anni ’70, LSD, mescalina e gioia di vivere: a ciò, ancora, tutto il corpus concettuale di Everything was Beautiful si riferisce. La linea vocale che inizia in levare, poi, è un tocco di classe. L’ending, esplosione blues old-school, sarà spettacoalre da ascoltare live. La suite conclusiva, I’m coming Home Again, sa di nostalgia, di narrazione, di promesse. Ed è, forse, poco efficace, nella sua psichedelia, rispetto alla capacità di sintesi che gli altri brani da Everything Was Beautiful possiedono.

Everything was Beautiful ha un sapore ipnotico, anche perchè, sebbene si tratti di un album gargantuesco dal punto di vista di orchestrazioni, i brani, compositivamente, sono piuttosto semplici. Non ci sono cambi di chiave; i brani si muovono sempre su uno, due, tre accordi (Crazy). Sono spiritual. Devono essere semplici per essere compresi. Devono lasciare spazio all’improvvisazione, e che sia immediatamente ballabile. Questo è il pop: una semplicità complessissima, in realtà, che colpisce l’orecchio dell’ascoltatore con un dolce inganno. Pierce lo sa bene, ed ha costruito un altro album bellissimo, quale Everything was Beautiful è, che è forse più terreno dei passati episodi, e, per questo, è più facile, forse, provare empatia verso di esso. Una delicata, ma rumorosa, orchestra di suoni.

Giulia Della Pelle
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