The Ides of March di Myles Kennedy: recensione

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credits for main picture: Chuck Brueckmann

Ricordo bene la sera in cui vidi Myles Kennedy la prima volta dal vivo. Era al teatro romano di Ostia antica, rovine e gradinate antichissime, un’acustica ancora eccezionale nonostante i millenni trascorsi. Era il tour di The Year of the Tiger.

Ora Myles è tornato: il golden boy dell’agonizzante rock classico contemporaneo, voce di Slash e degli Alter Bridge (ecco la nostra recensione di Walk The Sky), ha rilasciato The Ides of March l’11 maggio del 2021 per Napalm Records.

Su Myles Kennedy vanno fatte alcune considerazioni. È una persona seria e precisa. Un artista puntuale, competentissimo, adulto, tranquillo. La sua intera figura emana calma e semplicità, sincero amore per il proprio lavoro – privo di conflitto. Una persona realizzata. Sicura di ciò che fa e sicura di sé. Un professionista della musica, ma non un gregario o un semplice esecutore: lui è stato capace di darsi una disciplina, e di seguirla nel suonare, nel cantare, nello scrivere, nell’esibirsi. Chitarra acustica alla mano, spalle dritte, capelli lunghi ormai brizzolati davanti al volto: i reali corrugamenti di un’intera mente espressi tramite le note rustiche dei suoi brani. Che, a loro volta, sono sincero racconto di vita.

The Ides of March, dunque, ne è la prova. Ci troviamo di fronte ad un lavoro coeso e di piacevolissimo ascolto, energico e mai banale: a partire da Get Along, potente intro fatta di sliding guitar e semplici fraseggi – su cui, ovviamente, giganteggia l’eccezionale voce di Kennedy. Una spruzzata di country per A Thousand Words, che narra di come le fotografie – il nostro mondo, ormai, visuale – possano essere più potenti di mille parole – e per Wanderlust begins. Nell’ultimo caso, Myles diviene più vicino a Tony Bennet che al suo solito esser sirena del rock – crooning, narrazione, cantastorie.

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Gran parte di The Ides of March è stato, ad ogni modo, composto dopo che il nostro pianeta è cambiato. Ovviamente, mi riferisco alla pandemia da Covid19: all’improvviso, quel 9 marzo 2020, l’Italia, l’Europa, e gli Stati Uniti, si barricano in casa. In Stride parla di un’invasione di zombie, nel suo mood blueseggiante e swing – si segnala l’eccellente lavoro ritmico da parte di batteria e organo hammond in sottofondo – in cui il primo pensiero è procacciarsi ciò che c’è di più necessario in una società civilizzata: la carta igienica.

The Ides of March prosegue con la title track, un’eccezionale – e non mi vergogno a dirlo: uno dei brani più belli, maturi, e profondi che abbia ascoltato quest’anno – power ballad di sette minuti. Sette minuti di sussurri, di grande potenza espressiva e teatrale di Myles Kennedy, che tocca note quasi black metal per poi sfiorare sensazioni lounge, stiracchiate e poi urlate.

Some say the end is nigh
That no one will get out alive
Some say it’s written in the stars
Beware the Ides of March

Come tutti sappiamo, il mondo occidentale, in cui ci sentivamo invincibili, è cambiato a marzo del 2020: inizio marzo, le idi di Marzo. Quando Giulio Cesare fu colpito da 72 coltellate, nel 44 avanti Cristo. Il bridge, che suona di improvvisazione jazz, è un ottimo break per un brano che altrimenti avrebbe rischiato di eccedere nella volontà di emozionare, e lascia ampio spazio espressivo live – evidentemente, Kennedy l’ha composto nella speranza di poterlo presto suonare live con la sua band. Ora, però, miei amati lettori, so che siete degli ascoltatori attenti, e sì, l’ho notato anche io. L’arpeggio di The Ides of March è sostanzialmente identico a Stairway to Heaven. Ma io ci credo, io credo nella buona fede di Kennedy: credo nell’omaggio, e non nel plagio.

The Ides of March è un album estremamente coeso, forse troppo – l’eccessiva lunghezza, ben undici tracce, non tutte diverse – ne svilisce l’impatto artistico: Wake me when it’s over e Tell it like it is piaceranno moltissimo ai fan più accaniti dell’AOR moderno e divertiranno per un viaggio in auto, ma nel complesso sono poco funzionali all’equilibrio dell’album. Moonshot, invece, accarezza ispirazioni di 16 Horsepower dei tempi andati, mentre la conclusiva Worried Mind si muove fra la black music per un brano ottimista ed intimista: un dolce ballo di fine serata in un diner americano. La musica crea l’ambiente e l’atmosfera, la coppia di amanti che si perde in un abbraccio – ed il resto scompare.

L’effetto di The Ides of March di Myles Kennedy è simile a The Darkest Skies are the Brightest di Anneke van Giersbergen: un buon lavoro, adulto e maturo, seppure con qualche tempo morto, di un grande musicista. Ispirato dagli strani, oscuri tempi che abbiamo vissuto – e che, ora, sembrano essere giunti alla fine. Almeno per il mondo occidentale.

Giulia Della Pelle
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