Lightwork di Devin Townsend: recensione

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Lightwork è l’ennesimo album del camaleontico Devin Townsend, uscito il 28 ottobre del 2022 per Inside Out/Century Media.

Abbandonati i lustrini esplosivi di Empath, il camaleontico Devin Townsend approccia, con Lightwork, una nuova via. La affronta timido, affacciandosi come un gatto dietro un angolo. Dopo aver costruito un nuovo Colosseo musicale con Empath, Devin Townsend è ritornato.

Beh, in realtà già era tornato. Solo che nessuno se n’era accorto, tranne qualche fan accanito e noi della critica musicale, che abbiamo accantonato quella infelice coppia di album, The Puzzle/Snuggles, esperimento ambient/rock un po’ troppo ambizioso per essere comprensibile. Sarà che siamo persone semplici, talvolta, e le esplosioni d’artificio di Spirit Will Go On ci hanno smosso molto di più dell’ennesimo assolo di Steve Vai.

Con Lightwork, la solfa cambia. E’ un lavoro delicato, leggero, come dice il nome: la voce di Devin Townsend è al centro di ogni composizione, e, sebbene ampiamente riverberata, è quasi sempre sola: non c’è Anneke Van Giersbergen a supportarla continuamente come in Empath. Delicata e quasi femminea, la voce di Townsend sfocia nel pop, imita Michael Jackson fra falsetti e gorgheggi, diviene predicatore, ma non abbandona del tutto gli scream che lo caratterizzano dall’epopea di Ziltoid. Partiamo dalla cover: c’è un faro, lighthouse in inglese, che viene aggredito da un kraken. È forse la musica di Townsend quel faro? Quella luce che viene aggredita da un mostro degli abissi? Il design della cover, peraltro, è volutamente infantile: sembra tratto da un libro per bambini – e, forse, si tratta proprio del target di Lightwork, il suo significato nascosto.

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Lightwork parte piano, quasi dolce. Moonpeople, la gente della Luna, che a breve l’umanità dovrebbe ritornare a ricoprire di impronte, potrebbe esser un brano un po’ uptempo ma dei Coldplay – se si ignora l’intricatissima linea ritmica di strumenti, riverberi, effetti high-pitched piazzati quasi a caso, e una struttura country da Gene Austin, sarcasmo castigato. Le esplosioni spaziali che tanto mancavano da Empath sono però immediatamente introdotte in Lightworker: candore e serenità, nubi bianchissime di una biosfera di un pianeta alieno in cui uccelli ed insetti sono la stessa cosa; un fiume puro, una Versailles sonora. Il barocco di Lightwork è dunque degnamente introdotto dalla sua quasi title-track: come anticipato, Devin si smazza la suite praticamente da solo, se non per cori muliebri invocanti frasi di pace e amicizia; un gioioso inno da far ascoltare a dei bambini dell’asilo e che hanno i loro genitori dalle tendenze riccardone apprezzeranno. Laddove finisce Lightwork, inizia Equinox: synth sala giochi anni ’80, Pong e Space Invaders sciacquati nei panni degli anni ’20, in un riff orecchiabile ma placido, quasi un death rallentato; simile ai lavori di Onehotrix Point Never e Caroline Polachek, Townsend qui si avvicina all’indie sperimentale americano d’alto livello, con una linea vocale che fa ampio uso di scale semplici ma di grande effetto emotivo – barocco, per l’appunto, ma non rococò. Lievemente malinconica ma consolatoria, come l’abbraccio del prete dopo una confessione di una marachella, Call of the Void è sussurrata su un soundscape che gioca sugli stessi accordi di Moonpeople, e su un riff semplicissimo hard rock: un brano che ci saremmo potuti aspettare dagli Hoobastank, per dirne una. Ma il tocco di classe, l’arriccio che fa la differenza, è nei pad di archi aggiunti distanti, nel giro di basso mormorato, nei riverberi femminili della voce.

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Su e giù, scarta a destra, ruota a sinistra: una corsa di navi spaziali in un canyon di un pianeta deserto è Heartbreaker, che levita leggera come un velivolo. È la Singularity di Lightwork: un incalcolabile numero di strumenti e diverse linee musicali, intrusioni femminili e cambi di accordo improvviso, frenate brusche e accelerazioni, al contrario, delicate ed anticlimatiche; eppure, il risultato finale è vezzoso, piumato, non segue le regole della gravità ma fluttua libero. L’oscura Dimensions passa quasi in sordina dopo il finale nucleare di Heartbreaker, ed è un lungo lavoro cyberpunk-space rock da battaglia – potrebbe, però, essere facilmente riprodotta in un esclusivissimo techno club berlinese. Di nuovo, il vezzo espresso in Lightworker si ripresenta nella splendida Celestial Signals, che sembra un brano degli Epica o dei Within Temptation: goth, epica, ma gioiosa ed espressiva; teatrale. Un giro di basso tiene il sound ancorato al terreno, mentre la voce di Devin Townsend si eleva alle stelle, mettendo a segno una delle migliori performance dai tempi di Sky Blue. Heavy Burden, invece, è la Borderlands di Lightwork: quasi country, ridanciana, insistenti voci femminili angeliche, in continuo dialogo con Townsend e con gli strani strumenti utilizzati. Siamo nel pieno del territorio del prog moderno: o, meglio, di band vecchissime come la PFM o il più recente lavoro del Banco del Mutuo Soccorso – è il numero di diverse linee vocali e cambi di ritmo a dircelo. Eppure, qui, la complicatezza ha uno scopo: in Heavy Burden viene narrato il tentativo di contatto fra due esseri, che, per definizione, non è mai semplice. Ma avviene a tratti, in grandi accelerazioni ed immense pause. Con chiara, orgogliosa e palese confusione.

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Ricorda ascoltatore: Devin ti guarda

La sorprendente Vacation, un cocktail su una spiaggia di un mare viola della versione aliena analoga ai Caraibi, rallenta il passo solo per introdurre la suite finale, Children of God. Che è un gospel sontuoso di cori, orchestrazioni gargantuesche, vari movimenti, ed una narrazione di creazione, evoluzione, distruzione, di un intero mondo.

Lightwork è un album divertentissimo, ma molto più sottile di Empath, illustre predecessore. Devin Townsend ha ormai creato il suo personale genere musicale, e persegue la sua via con orgoglio: in un turbinio di endorfine e mancato reuptake della serotonina, ci guida in un percorso di pace, armonia, gioia – quasi un insegnamento per un figlio. Sembra che Townsend abbia, nel periodo del covid, recuperato la fede: in cosa, non saprei dirlo. Ma indubbiamente egli, ora, crede in qualcosa. Qualcosa di superiore, cui ispirarsi, cui attingere.

È ora un predicatore coraggioso: sprona il suo popolo alla pace e all’amicizia, alla comprensione e all’empatia, alla risata e al pianto qualora necessario. Un lavoro necessario ed onesto, placido ma elegante, barocco e neoclassico, che alza ulteriormente il livello qualitativo della discografia di Devin Townsend.

Giulia Della Pelle
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