A Mirror to the Sky, Yes: recensione

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A Mirror to the Sky è l’ennesimo album targato Yes, uscito il 19 maggio 2023 per Inside Out.

L’esistenza stessa del concetto corrispondente alla band chiamata “Yes” pare non avere né inizio, né fine. Gli Yes provengono da un iperuranio distino dalla nostra realtà, ma che si perpetua in essa, in un ciclo infinito. Gli Yes, i Sì, una costante nel secolo breve e nel suo figlio meno malevolo, il duemila. Oramai più un concetto, un noumeno, che una vera band.

Musica a nome Yes continua ad uscire. Riconosco di aver definito il precedente capitolo della nuova avventura terrena della band come un “album da anziani”, e riconosco che il nuovissimo Mirror to the Sky è molto più gradevole del precedente The Quest.

Gli Yes non hanno mai cambiato estetica. Le splendide cover dei loro album – una volta attuali, ora dotati del fascino del retrò, un mondo ipercolorato che non tornerà più – rappresentano un’altra costante generata in cielo e, dunque, discesa in terra.

Attualmente gli Yes constano in Steve Howe, Geoff Downes, rispettivamente a chitarra/voce e tastiera/voce, Billy Sherwood al basso più i “novellini” Jon Davison e Jay Schellen, rispettivamente polistrumentista/voce principale e percussioni. Mirror the Sky proviene dall’incontrastata mente creativa di Downes, che aveva idee per un nuovo album già durante la promozione di The Quest. Contrariamente a quest’ultimo, un tradizionale concept album in pieno stile Yes, Mirror to the Sky è una collezione omogenea di canzoni di altalenante qualità e grip.

yes mirror to the sky recensione

Godibili, interessanti, ben suonate, ma di certo non memorabili. Già da Cut to the Stars, intenso ed evocativo brano in cui bei synth descrivono una tipica frase musicale a là Yes (dolcezza, descrittività, e ampio uso di accordi maggiori), si nota però un più intenso dinamismo rispetto al passato, qualche distorsione in più; la successiva All Connected è una delicata mini-suite guidata dal basso di Sherwood che ne detta i tempi ritmicamente e musicalmente, e che si lega perfettamente all’atmosfera descritta da Cut To the Stars. L’ariosa Luminosity – quasi new age, a là Enya, nell’intro – possiede, invece, una più grande vena drammatica, sebbene i giri di chitarra descritti da Howe nei quasi dieci minuti di brano non siano proprio rivoluzionari, e molta della memorabilità del brano risiede nella deliziosa frase musicale che fa da fondamento per l’evoluzione della melodia, e che riporta in auge ricordi della scena di Canterbury lungamente dimenticati. Living out Their Dream è un brano che fornisce movimento ad un album, che, altrimenti, sebbene meno piatto dei precedenti, comunque di certo non utilizzabile per un allenamento ad alto impatto, e prelude alla suite centrale di Mirror to the Sky, nonché title track: tredici minuti di quanto di meglio gli Yes degli anni 2010/2020 sono riusciti a comporre. Una lenta evoluzione, e un’addizione successiva di strumenti, sempre sorretti dal basso, che portano, come in un classico brano degli Yes, allo sviluppo del brano in almeno tre movimenti differenti – come i dettami dell’antico prog recitano.

Pause and reflect the cause and effect
With mindful mind
Sail timeless time
Strange worlds unknown
Where all men soon must go

L’ultimo movimento di Mirror to The Sky è prettamente strumentale ed estremamente epico: si fa ampio uso di effetti orchestrali intervallati a giri di chitarra, per un risultato finale che sarà sicuramente estremamente godibile in sede live. Circles of Time, che inizia immediatamente dopo Mirror to the Sky, è un altro pezzo in pieno stile Yes, ed è forse il brano più catchy dell’album, e nel quale peraltro la linea vocale è deliziosamente adattata ad una semplice base quasi modern country. Tono che viene mantenuto, con tanto di chitarra acustica, nella successiva Unknown Place, che però evolve in un brano classic rock – luminoso, dinamico, ballabile. Sebbene suoni fortemente di già sentito, privo, però, della puzza di stantio di The Quest, e con alcuni pregevoli momenti con Hammond e buone improvvisazioni di basso.

Dunque, tranne per la title track, la forza di Mirror to the Sky risiede in pochi brani, brevi: One Second is Enough è fra questi. Una base interessante, non noiosa, ed un appropriato dubbing della voce: un lavoro gradevole sebbene non memorabile – e stesso dicasi per Magic Potion, lievemente più groovy di One Second is Enough, e cui è affidata la chiusura dell’internabile nuovo capitolo dell’onnipresente storia degli Yes.

La storia talvolta si ripiega su stessa, ma non è detto che il tempo sia capace di guarire se stesso. Gli Yes non ne sono capaci. Possono tirare avanti a vivacchiare, a strappare qualche secondo, qualche minuto, alla morte – artistica! Auguro ad Howe e Downes lunga vita e prosperità – ma essa sopraggiungerà inevitabile.

Sebbene non in missione di salvataggio, ma guardanti alle stelle dalle stalle con uno specchio, gli Yes dimostrano di non sapere tenere affatto il passo con le band moderne, e non per mancanza di capacità o perché “la moda è cambiata”: la mancanza di idee è persistente ed evidente, assieme ad un riciclo appiccicaticcio a mo’ di arte povera di quanto espresso sin dagli anni ’70. Non c’è Segnale WOW che tenga in A Mirror to the Sky.

Giulia Della Pelle
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