Neptunian, Winterhorde: recensione

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Neptunian è il nuovo album dei Winterhorde, uscito l’8 dicembre 2023 per Noble Demon.

Dal sound dei Winterhorde, nessun ascoltatore, neppure il più attento, potrebbe indovinarne la provenienza: forse l’infuocata e gelata Islanda; magari la gelida e selvaggia Norvegia; in extremis, la fiorente Germania.

Ma non l’assolato Israele.

Eppure, la storia dei Winterhorde è lunga e piena di successi. Dal 2006, dall’uscita del primo LP – Nebula – la critica specializzata non ha potuto fare altro se non inserire la band extreme metal nell’olimpo del genere, assieme a mostri sacri come i The Ocean, gli Enslaved e i Ne Obliviscaris (e, più recentemente, i Villagers of Ioannina City; curiosamente, tutte band del Vecchio Mondo) – e a buon titolo. Quest’ultimo Neptunian, concept album attorno al dio greco-latino, è un viaggio sonoro di rara epicità e violenza, nonché un continuo omaggio ai Dimmu Borgir, di cui prendono il gusto per la melodia, la doppia cassa; ma dall’extreme metal più classico – quali i primi Diablo Swing Orchestra o Unexpect – prendono la commistione continua di generi, l’inserzione di strumenti anomali quali sassofoni, trombe e violini, le voci muliebri e il gusto per il carnevalesco.

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L’esperienza sonora di Neptunian è, dunque, totalizzante: la stratificazione sonora richiede un livello estremo di attenzione al dettaglio sia per il compositore che per il fruitore, ed è un lavoro, in tal senso – proprio come la traccia iniziale – anfibio, in quanto a metà fra black metal e progressive. L’alternanza di voci pulite e growl rinvigorisce quella cinematicità che è venuta a mancare dopo la dipartita dei Dimmu Borgir dalla musica mainstream e – spero – darà anche nuova vita al prog ipertecnico, ultimamente incancrenito su se stesso. I brani di Neptunian, ben esemplificati nella title track, si basano su potenti riff e sono tutti strutturati come piccole arie: una frase musicale ripetuta più volte, rimescolata, reinventata all’interno dei 5-9 minuti di ciascun pezzo. C’è anche spazio per sperimentazioni su stilemi tipici del folk norreno, in Neptunian; e si odono gli antichi Ensiferum, ma attualizzati in un gusto più moderno e per un pubblico che pretende ancor più perfezione. La gradevole Angels in Disguise vede la presenza di Kobi Farhi, forse il musicista israeliano più famoso del metal, in quanto vocalist e frontman degli Orphaned Land: più dimessa dei precedenti brani, archi in dissonanza con la lead guitar, si muove fra almeno 3 chiavi diverse – l’esperienza finale è, forse, soverchiante e non del tutto godibile.

The Spirit of Freedom, brano dall’ispirazione evidentemente rivoluzionaria, è, al contrario, un raggio di un sole tiepido in mare di nubi temporalesche: cinematografica, archi che lasciano spazio alla solita cavalcata in growl e wall of sound; quest’ultimo, che, sorprendentemente, crea una certa aspettativa nell’ascoltatore – come verrà concluso questo brano? The Spirit of Freedom, effettivamente, è uno dei migliori pezzi di Neptunian – un continuo crescendo della voce pulita di Yoni Oren ed una bella chiusura di lead guitar.

Neptunian, Winterhorde: recensione 1

La suite centrale di Neptunian è Alone in The Ocean, introdotta da un arpeggio di chitarra pulita e onde del mare che si infrangono sulla battigia. E altrettanto confusa è purtroppo la voce di Oren, estremamente effettata – al punto da risultare superflua – e perduta nel pelago di chitarre e batteria, nonostante la melodia da lui cantata sia maestosa: l’intermezzo operistico è degno dei migliori pezzi di In Sorte Diaboli e tocca vette di qualità compositiva ancora neanche sfiorate in Neptunian, ma si perde nell’eccessiva lunghezza del bridge – un build-up che non ripaga con un altrettanto maestoso movimento. La breve e dolce The Garden dovrebbe essere la ballad dell’album, ed è effettivamente uno dei brani più riusciti, racchiudendo ogni stilema dei Winterhorde in 3 minuti e mezzo scarsi. A Harvester of Stars (di nuovo, alla voce pulita, un ospite: Davidavi Dolev) è forse, al contrario, il brano migliore dell’album: il carattere mediterraneo dei Winterhorde si fa sentire, nella rotondità della melodia descritta, che è dolce, nonostante le aggiunte black metal sulla superficie; come in Angels in Disguise, però, la bella voce del vocalist è totalmente dispersa in un deserto di fini granelli di note di chitarre, bassi, orchestrazioni poco rifinite. D’altro canto, la struttura del brano è però estremamente interessante: si passa da momenti radiosi descritti da Dolev, a quelli molto più oscuri – e ripetitivi –, contenenti le improvvise impennate di chitarra. Sicuramente un brano che farà effetto live.

Neptunian è concluso da With Bare Hands Against the Storm, che si apre con fraseggio di chitarra che spazia su molteplici accordi in dissonanza gli uni con gli altri (effettivamente, la scala scelta è piuttosto complessa e difficile da gestire; buon per i chitarristi Omer Naveh e Oleg Rubanov); il che, però, evolve in un ottimo brano che segue la stessa struttura del fraseggio – come nella iniziale Amphibius, il cui tema è ripetuto centinaia di volte, formula funzionale e che ha portato ai brani più belli di Neptunian. La materia si sposa perfettamente – stavolta! – con le harsh vocals di Zed Destructive, chiudendo un album difficile, molto difficile. Sia per i Winterhorde, che per noi.

La produzione è purtroppo una nota dolente dell’altrimenti ottimo Neptunian. Il suono è complesso, stratificato, intrecciato: è impossibile udire, e goderne, senza perdere qualcosa nel mucchio alla rinfusa di molteplici strumenti e voci; la splendida voce tenorile di Kobi Farhi si perde completamente all’interno di Angels in Disguise, dimenticata sotto la doppia cassa e i cori muliebri distanti. I violini di The Spirit of Freedom, che, compositivamente parlando, sarebbero stati un’ottima idea, risultano estremamente finti e quadrati – il suono è poco rifinito, tagliato con l’accetta. Ho appreso con sorpresa che al mixaggio si è trovato nient’altro che Jaime Gomez Arellano, già Ghost e Paradise Lost: evidentemente nemmeno gli dei possono fare miracoli.

Non direi che Neptunian sia un brutto album, ma neppure bellissimo: Maestro aveva impressionato per la maestria compositiva, mentre in Neptunian, sebbene possieda ottime idee, non è stato possibile svilupparle e farle sbocciare.

Giulia Della Pelle
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