Doomood, Ottone Pesante: recensione

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Doomood è il terzo album, il primo per una label, degli Ottone Pesante, triade italiana che si propone di fondere jazz, avant-gard, musica classica, col metal. E’ in uscita il 18 settembre per Aural Music.

Cos’è il brassmetal?

Beh, già il nome potrebbe indurre in facili confusioni. Brass, in inglese, significa ottone: e di che materiale sono fatti gli strumenti a fiato – che, all’occhio più disattento, potrebbero assomigliare a pezzi d’oro?

D’ottone.

Qualche anno fa, nel Belpaese, che tanto viene bistrattato musicalmente parlando, nacquero gli Ottone Pesante. Tre musicisti – Francesco Bucci a trombone e tuba, Paolo Ranieri a tromba e flicorno, e Beppe Mondini alla batteria – che, in un atto estremo di coraggio, hanno tentato – riuscendovi – di creare un nuovo genere.

Era una scelta, una soluzione stilistica così ovvia, ma, come tutti i colpi di genio, risultano perfettamente coerenti solo dopo essere stati scoperti: perché, in sostanza, la cattiveria e la dolcezza, le modulazioni e le ritmiche, espresse dagli ottoni, non risultano essere così distante da quelle sviluppate in cinquant’anni di heavy metal.

Ed in una grandiosa visione musicale che spezza tutti i generi cui eravamo abituati, gli Ottone Pesante rilasceranno, dopo molti ritardi dovuti alla pandemia del covid19, l’entusiasmante Doomood per Aural Music.

Finalmente un’etichetta, per una band avant-garde, che ha tentato e che tenta, assieme a pochissimi altri nello scalcinato panorama musicale attuale, in cui l’osare è divenuto fonte di vergogna e ludibrio, ed una release in grande stile. Ad anticipare Doomood, infatti, il singolo Tentacles. Ma sarebbe ingiusto iniziare una review a partire dal singolo, perché Doomood si struttura come una sinfonia angosciosa e struggente, un unicum stilistico fortemente narrativo, che vive di saliscendi emotivi – espressi da una ritmica e, soprattutto, da un mixing a cura di Riccardo Pasini (Studio 73) a volte pulitissimo ed etereo, e a volte sporchissimo ed abissale.

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Palindromico è il titolo, palindromico è l’album, come alcune delle strutture più importanti della natura – zone del Dna, galassie a spirale barrata, le nostre mani: un punto di simmetria centrale per due sezioni che sono uguali solo se specchiate. Due entità distinte, da un punto di vista semplice, comune, privo d’immaginazione, ma facce differenti della stessa medaglia per la mente di un creativo. E così, fra accelerazioni e rallentamenti, si viaggia da Into the chasm, tramite Distress – che propone, effettivamente, un’aggiunta alla sincopata ed angosciosa sempiterna ascensione – arrivando al singolo Tentacles, narrato da una voce femminile dolcissima.

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La particolarità, dunque, del brassmetal degli Ottone Pesante, è la capacità di incollare i bassi degli ottoni con la risonanza delle casse di batteria, creando un suono estremamente compatto e penetrante, in grado di colpire i recettori dell’orecchio interno ed esterno: perdendosi, quindi, fra le spire tumultuose di casse di risonanza metallica, gli Ottone Pesante hanno creato un concept album su un parassitismo, emotivo o biologico e, tramite il climax raggiunto in Serpentina Serpentone/Ocean on an echo, ne descrive il dualismo mutualistico. Nelle parole della band, un “canone inverso sovrapposto”: Pachelbel e il jazz fusi nell’heavy metal. Dal punto di svolta, effettivamente, il suono si fa grave, non più esplosivo, ma rallentato, riflessivo, tormentato – un oceano sonoro popolato da lumache Strombacee (titolo di uno dei brani), le cui conchiglie esprimono una delle tante forme senza fine che la natura sa esprimere e che l’essere umano, come diceva Kant, trova intrinsecamente fonte di meraviglia – in un giudizio non sporcato dall’esperienza sensibile. Sfiora sonorità doom metal dei Funeral la splendida suite Endless Spiral Helix (si parlerà di Nautilus e sezione aurea, come fecero, un tempo, i Tool?) , una soundtrack per l’Armageddon: ottima per sedersi, sorseggiando una birra schiumosa, sul precipizio di un fiordo, guardando il resto bruciare.  La conclusiva End Will Come When Will Ring the Black Bells è, innocentemente, chiaramente, e sostanzialmente, genialmente, il contraltare di Into The Chasm, di cui ne sovverte il pentagramma pur modificandone, leggermente, le armonie.

Con Doomood degli Ottone Pesante ci troviamo di fronte, in un’epoca di digitalizzazione estrema, di pedali e distorsori, di synth, ad un album estremamente fisico.

I suoni registrati provengono da tradizionali casse di risonanza, e sono dipendenti, fortemente, dal fiato, e, dunque, dalla fisicità del musicista: sia nelle sezioni di doppia cassa batteristica, che nei momenti più oscuri di flicorno, questo punto, fatto di sudore, non va mai dimenticato. Un unicum che merita di essere elogiato.

Giulia Della Pelle
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1 commento su “Doomood, Ottone Pesante: recensione”

  1. in linea direi con questo scritto.seguo ottone pesante dai loro inizi.doomood un evoluzione attesa.un disco magico dark .con momenti a mio avviso prog.poi sara’il live a dare spazio a levigare l’ostracismo del vinile.poco altro da dire grandiosi.

I commenti sono chiusi.

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